Faqs

Ovvero una raccolta di risposte a domande che ci vengono fatte spesso.
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Ok, la scintilla è stata un gioco di parole sul "Che Fare?" di Lenin pubblicato nel 1902. Che in realtà però riprende il titolo di un romanzo di Černyševskij del 1863, un classico sulla democrazia circolato in modo clandestino per quasi cinquant'anni. E poi ci sono anche i "che fare?" dell'artista Mario Merz, al neon e con lo spray, a partire dal 1968. Ma il motivo principale è che volevamo chiamarci con un nome che mettesse in evidenza la parte pratica e proattiva del lavoro culturale. E quindi: cheFare.
Probabilmente mai. È stato bello: sono stati tre anni pazzeschi (2012-2014), abbiamo incontrato migliaia di realtà super interessanti da tutta Italia, abbiamo messo assieme 350.000 euro per finanziare 5 progetti importanti. Però è stata una fatica enorme, e ci sono enti che nascono proprio per fare premi come quello. Nel 2015 abbiamo preferito mettere a frutto quello che avevamo imparato per lavorare con le organizzazioni della trasformazione culturale. Però mai dire mai.
La trasformazione culturale sono tutte quelle pratiche e quelle teorie che partono dalla cultura per trasformare in meglio la società. Ma anche tutte quelle trasformazioni dei mondi della cultura che reagiscono ai cambiamenti della società per diventare più giusti, più democratici, più partecipati. E' un doppio movimento. Da una parte, riguarda esplicitamente il modo in cui la cultura trasforma lo stato delle cose. Un cambiamento dei modi e dei mondi non messianico ma alchemico, che opera a livelli radicali non sempre immediatamente percepibili. Dall’altra parte ha a che fare con come i soggetti, le organizzazioni, le pratiche, le istituzioni e le politiche della cultura cambiano al loro interno, e nel rapporto con i territori che abitano.
Abbiamo sempre inteso come “cultura collaborativa” tutte quelle forme emergenti che sperimentano modi collaborativi di progettazione, produzione e distribuzione di opere, beni e servizi nel settore culturale: dall’arte comunitaria “fuori contesto” (concerti sui balconi, spettacoli teatrali nei bar, mostre negli appartamenti) a quella pubblica e relazionale; dalle pratiche di audience development e engagement a quelle messe dei nuovi centri culturali; dal neo-mutualismo hard delle cooperative di precari dello spettacolo a quello soft di alcuni coworking; dal crowdfunding per progetti culturali alle piattaforme digitali per l’incontro tra domanda e offerta; dalla liberazione degli archivi attraverso licenze di public domain all’utilizzo di tecnologie open source nella prototipazione del design; dalle nuove reti bibliotecarie all’attivismo diffuso. Non solo pratiche, processi o procedure ma soprattutto modi collettivi di costruire senso.
Se ci limitiamo alle risposte da manuale, l'innovazione sociale è costituita da tutte quelle strategie, pratiche e politiche che innescano un cambiamento positivo trovando nuove (e migliori) soluzioni per vecchi problemi sociali o nuove soluzioni per problemi inediti. Questa definizione di innovazione sociale non ci dice nulla in realtà sul posizionamemento degli attori, sulle loro scelte politiche e soprattutto sui contesti in cui vengono effettuate. E infatti esistono tanti modi di intendere l'innovazione sociale quanti sono gli attori che se ne fanno portatori, con ideologie e letture politiche anche molto, molto diverse. Questo è uno dei motivi per cui più passano gli anni e meno usiamo questo termine, perché lo troviamo sempre più svuotato di senso. Ragioniamo più volentieri di "cultura collaborativa" o di "trasformazione culturale" . Capita ancora di parlarne - e di scriverne - perché molti di quelli che riconosciamo come alleati lo impiegano ancora. E allora ne facciamo un uso tattico, intendendolo come un insieme di pratiche, politiche e strategie che hanno una natura trasformativa e che innescano cambiamenti positivi multidimensionali (sociali, economici, culturali, ecologici) senza estrarre il valore dai territori.
Dappertutto. Abbiamo sede a Milano e a Torino, ma siamo nati guardando a quello che succedeva in giro per tutta l'Italia e non abbiamo più smesso. Nel tempo abbiamo trovato un sacco di partner interessanti in giro per l'Europa. E quindi lavoriamo nelle grandi città e con i piccoli paesi, al nord e al sud, in Italia e all'estero.
Si, in modi diversi. Nella realizzazione di progetti di Terza Missione, come public program, cicli di articoli, progetti di disseminazione. Nella comunicazione di progetti editoriali e di ricerca. Come attivatori di progetti partecipativi e di citizen science.
Ma certo che si. Anzi, negli anni alcuni dei progetti più belli li abbiamo fatti propri con la PA. Li trovate nella sezione Progetti.
No. Si. Dipende da come la intendi. Se pensi al decoro urbano, alle speculazioni sulla città e ai rendering usati come maquillage no. Se pensi invece ai progetti che rendono forte la voce degli abitanti, agli interventi che migliorano la qualità sociale dello spazio pubblico, alla costruzione di spazi sociali e culturali di prossimità, allora si. Siccome non siamo a nostro agio in alcuni dei modi di intendere la rigenerazione urbana, invitiamo spesso quelli che la fanno come piace a noi a ragionare assieme. Trovi i loro contributi nella sezione articoli.
No. Nel senso che non finanziamo i progetti di nessuno, perché non siamo un ente erogatore. Può succedere che un progetto che incontriamo ci interessi, e che allora cerchiamo insieme un modo di finanziarlo. Ma da qualche parte c'è una FAQ specifica su questo.
Siamo costantemente in giro per fare advocacy per la cultura collaborativa. A raccontare casi, a ragionare sui contesti locali, a mettere insieme teoria e pratica. Se l'invito è sostenibile economicamente, scrivici a posta@che-fare.com Se ti sembra una formulazione antipatica, peccato, però ricorda che per noi sono sempre ore di lavoro.
Parliamone
Ci proviamo. Le parole che usiamo e il linguaggio che scegliamo modellano il nostro modo di pensare, fungendo da filtro attraverso cui interpretiamo e agiamo il mondo. Questo per noi vuol dire che non ci sono manuali ma solo esperimenti. A seconda dei progetti e dei pubblici a cui ci rivolgiamo proviamo di volta in volta a utilizzare le forme tradizionali, il femminile sovraesteso, le elencazioni in cui si alternano i generi, la ə, l'asterisco. L'importante è che i contenuti supportino attivamente la pluralità e la parità di genere.
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