Governativa, privata o open: quale società del controllo vogliamo?

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    Nel famoso saggio sulle società del controllo del 1990, il filosofo francese Gilles Deleuze riportava la visione del suo amico e collaboratore, Felix Guattari di «una città in cui ciascuno potesse lasciare il proprio appartamento, la propria via, il proprio quartiere grazie a una personale carta elettronica capace di rimuovere questa o quella barriera».

    Deleuze suggeriva che questo principio di libertà sorvegliata si stesse affermando come parte di una nuova logica di gestione del sociale. La vecchia società disciplinare, dove ognuno doveva stare al proprio posto e comportarsi entro i limiti normativi della propria posizione sociale, non bastava più a contenere la nuova complessità che era in arrivo con la globalizzazione e il proliferarsi di nuove libertà in campo sessuale, identitario e di consumo. Le sue istituzioni centrali come le fabbriche, la scuola e la famiglia ormai erano in crisi perenne.

    Nella futura società del controllo, suggeriva Deleuze, non ci saranno (quasi) più limiti normativi ai comportamenti – tu potrai amare chi vuoi e consumare cosa preferisci – ma tutte le azioni saranno sorvegliate elettronicamente e sarà il profilo statistico che risulta dalle azioni e dalle interazioni di ciascuno a determinare l’accesso ai vari spazi fisici e sociali. Il governo dei comportamenti si baserà sul principio attuario di identificazione dei profili a rischio, e non sulla distinzione normativa fra bene e male, giusto e sbagliato.

    Abbiamo visto il principio di libertà sorvegliata affermarsi in varie aree

    Da allora abbiamo visto il principio della libertà sorvegliata affermarsi in varie aree, dalla segmentazione per stili di vita che trasformò le ricerche di mercato già negli anni Settanta, e che è rimasta più o meno inalterata come base per le attuali analisi di dati a opera di Facebook, Google e Cambridge Analitica; agli algoritmi di profiling che accompagnarono la stretta sulla Homeland Security statunitense dopo l’undici settembre – e che lasciarono il principe di Svezia bloccato per ore all’aeroporto di Miami, reo di un pattern di voli sospetto – passando per le fidelity card di Esselunga e la retorica dei safe spaces che ultimamente sta infestato i campus anglosassoni.

    È possibile che sarà l’attuale pandemia a elevare il principio di controllo a paradigma di gestione dei processi sociali generalmente accettato e legittimato, così come, secondo Foucault, la gestione dell’epidemia della peste nel Seicento fu la palestra per lo sviluppo delle tecnologie di Sorvegliare e punire, che furono la base della precedente società disciplinare.

    È possibile che a settembre, per accedere all’aeroporto o al treno ad alta velocità, dovremo mostrare un app che, sulla base di un’analisi dei nostri dati geo-localizzati, assicuri che non abbiamo interagito con i focolai dell’infezione negli ultimi 14 giorni. Forse sarà addirittura richiesto un braccialetto che fornisca dati sul battito cardiaco e sulla temperatura corporea per accedere al teatro o al cinema. Saranno sicuramente iniziative volontarie, anche perché nel presente quadro normativo europeo è molto difficile obbligare i cittadini a condividere i loro dati in questo modo, ma anche se saremo liberi di rifiutare, questo ci precluderà una serie di accessi e ci renderà difficile proseguire uno stile di vita normale. Non hai l’app sullo smartphone? Allora non prendi l’alta velocita e non entri in aeroporto.

    Non hai l’app sullo smartphone? Allora non prendi l’alta velocità e non entri in aeroporto

    E saranno misure che rimarranno in corso anche dopo l’emergenza immediata. Un po’ perché sono utili: in un capitalismo della sorveglianza – per usare il termine dell’economista americana Shoshana Zuboff – più informazioni, vuol dire più opportunità di mercato. Un po’ perché ci sarà sempre una nuova emergenza, un nuovo virus. E anche la normale influenza stagionale potrà essere gestita in modo analogo. Un po’ perché le misure d’emergenza, una volta installate difficilmente si tolgono. Nascerà intorno a tutto questo un apparato istituzionale fatto di professionisti, lobbisti portatori di una serie di interessi consolidati. Un po’ come è avvenuto con i controlli aeroportuali. Una volta passata l’emergenza della pandemia allora le nuove misure di sorveglianza digitale saranno ritenute legittime dalla stragrande maggioranza delle persone, esattamente così come oggi riteniamo legittimi i limiti sui liquidi da portare nel bagaglio a mano in aereo.

    La società del controllo si distingue dalla società disciplinare anche per il rapporto diverso che instaura fra potere e governati. Il controllo non s’interessa dell’individuo, della sua identità e dei suoi motivi – giusti o sbagliati che siano -, si indirizza a un livello più capillare, alle azioni, agli spostamenti fisici, ai siti e alle risorse digitali consultate. Il controllo interviene direttamente sulla vita sociale, ma nella sua manifestazione sub-individuale, in forma di flussi di dati e patterns di correlazioni. L’individuo diventa un dividuo, ci suggerisce Deleuze, definito non dalla sua essenza morale, come nelle società disciplinari, ma nella sua vicinanza anche momentanea a un pattern statistico particolare.

    Non hai interagito con persone contaminate di Covid nelle ultime due settimane? Puoi entrare in aeroporto. Hai interagito con persone vicine ai circuiti degli ultra? Non puoi entrare allo stadio.

    Questo da un lato permette più libertà nelle scelte individuali. Dall’altro lato rende problematica l’articolazione di una soggettività politica, almeno nel modo in cui siamo abituati a pensarlo. Le tecniche di sorveglianza medica delle istituzioni disciplinari ottocentesche potevano indentificare l’omosessuale come un soggetto patologico, da reprimere, rieducare o curare, a seconda degli approcci. La risultante soggettività omosessuale poteva però, in un secondo momento, essere riappropriata, e trasformata in una base per l’azione politica, invocando, come è successo nel secondo dopo guerra, diritti e nuove forme di riconoscimento sociale.

    La società del controllo però non lascia spazio per una tale dialettica identitaria. Negli Stati Uniti i rider della platform economy non hanno una soggettività operaia per usare un vecchio termine (anche se recenti iniziative legislative puntano in quella direzione). Come independent contractors non sono portatori né di diritti né di doveri, al di là del rapporto strettamente economico. Per l’azienda esistono solo come nodi in una rete di flussi di dati, di merci e di denaro che possono essere liberamente scartati se non rispettano i parametri di performance.

    Non c’è da sorprendersi se il modello della società di controllo si mostri come parte della modernità cinese

    Non c’è da sorprendersi se il modello della società del controllo adesso si mostri come una parte della modernità cinese, che ha avuto i sui sviluppi più importanti nell’ambito di un modello politico dove i diritti individuali e la società civile contano relativamente poco, e dove, invece, il problema cibernetico del mantenimento dell’ordine sociale è pressoché tutto.

    Anche se, come sottolineava già Deleuze, le tecnologie di controllo si sono sviluppate in occidente, come risposta alla crisi della società industriale, è stata la Cina – nell’ultimo decennio – a implementarle nel ambito di un modello sociale coerente, come mostrano le sperimentazioni con il sistema di misurazione delle virtù cittadine, usato anche per fornire profili di rischio che determinano l’accesso ai finanziamenti per start up e piccole imprese, per la diffusione del e-payment, e ultimamente per la gestione dell’epidemia CoVid in Cina così come in Corea del Sud.

    L’esperienza della pandemia ci fa fare un paio di passi avanti verso la piena realizzazione della società del controllo e ci mostra anche alcune possibili direzioni per il suo futuro sviluppo. Esiste un modello cinese dove lo stato ha un accesso diretto e immediato a tutti i dati generati dai cittadini, e la possibilità di intervenire in modo pressoché illimitato, ma esiste anche un modello Silicon Valley, dove i dati sono di proprietà delle grandi società private che possono concederne l’accesso come no. Facebook fornirà accessi i dati degli utenti per controllare la diffusione del Coronavirus? Forse sì. E continuerebbe a farlo anche se fosse costretto a misure di tassazione più stringenti?

    Possiamo immaginare un modello più partecipativo?

    In alternativa possiamo immaginare un modello più partecipativo basato sugli Open Data. Una partecipazione civica con chiare regole di trasparenza per quanto riguarda il funzionamento degli algoritmi e la gestione dei dati. Questo è il modello sognato dalla Commissione Europea anche se al momento con scarsi risultati. Ed è anche il modello che è stato implementato a Taiwan per controllare la diffusione del Coronavirus dove i cittadini sono stati invitati a condividere i dati e dove si sono introdotti sistemi di controllo e di sorveglianza su base comunitaria. Oppure ancora ci potrebbe essere un modello italiano, in cui tutto finisce come nei vecchi chioschi informatici che furono installati nelle stazioni ferroviarie all’inizio degli anni Novanta (ricordate?) e che dopo qualche mese rimasero quasi tutti in disuso, con la spina staccata.

     

    Immagine di copertina: ph. Tobias Tullius da Unsplash

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