La politica come assembramento, intervista a Luigi Manconi

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    La latitanza dei partiti, la pavida abdicazione del parlamento, l’incertezza radicale dell’esecutivo, le sfide per le forze sociali progressiste, a cui spetta di affrontare con pragmatico coraggio i drammatici effetti dell’epidemia, che rischiano di corrompere il già fragile “legame sociale”. È la lettura della crisi pandemica italiana secondo Luigi Manconi, sociologo, fondatore e presidente dell’associazione A buon diritto e rappresentante nelle istituzioni della cultura dei diritti. Il quale invoca, il prima possibile, un provvedimento ragionevole ed efficace come la regolarizzazione dei lavoratori stranieri irregolari. E ricorda che “la prossimità fisica, l’intimità corporea, quella relazione che comporta sudore, l’incontrarsi e scontrarsi dei corpi, l’affollamento, il pigiare, il pressare” sono condizione indispensabile della politica. Perché “la politica è assembramento”.

    Partiamo da un primo bilancio. Da diverse settimane sono in vigore politiche di contenimento, di “distanziamento sociale”, nel Paese c’è una vera e propria emergenza sanitaria: come giudica la risposta del sistema istituzionale e politico all’epidemia?

    Il maggior punto di criticità è rappresentato dall’estrema debolezza della vita parlamentare e della vita politica dei partiti. Adottando misure precauzionali e regole di prudenza, avremmo potuto garantire una vita parlamentare se non piena, di buon livello. Ma c’è stata una vera e propria abdicazione. Il ruolo del Parlamento è stato residuale, occasionale, marginale. I rappresentanti del popolo in nessuna occasione hanno fornito un indirizzo al Paese, una lettura della crisi, un richiamo alla solidarietà nazionale, una mobilitazione collettiva. Non c’è stato neanche un gesto simbolico.

    L’umanissima preoccupazione per la propria incolumità si è risolta in una vera e propria diserzione, nell’astensione dal mandato parlamentare

    Con amarezza devo dire che mi è sembrata una forma di pavidità. L’umanissima preoccupazione per la propria incolumità si è risolta in una vera e propria diserzione, nell’astensione dal mandato parlamentare. Si tratta di un segnale gravissimo, perché da tempo è in corso un distacco della società dalla rappresentanza politica, via via tradotto in contestazione, antipolitica, ostilità. Le componenti di quel fenomeno che chiamiamo populismo.

    Ha parlato di abdicazione del ramo legislativo, residuale rispetto all’esecutivo. Molti si dicono preoccupati che la torsione “biopolitica”, il prolungarsi dello stato d’emergenza, il ricorso a procedure eccezionali possano condurre a un indebolimento delle istituzioni democratiche, all’affermazione di un autoritarismo di Stato, presentato come compassionevole o umanitario, o a un capitalismo autoritario. Dobbiamo davvero preoccuparci delle torsioni autoritarie oppure la nostra società ha anticorpi sufficientemente sviluppati?

    Nel caso italiano, si è trattato più di un’abdicazione da parte del Parlamento e del sistema dei partiti che non di una forzatura autoritaria da parte dell’esecutivo. Ma ci sono questioni più generali, in effetti. Per ragioni di militanza politica e di ricerca sociologica, ho seguito i fenomeni dello stato d’emergenza in Italia, osservando le modalità delle cosiddette emergenze nell’arco di mezzo secolo: hanno avuto una scansione temporale incalzante, una successione rapida, un ritmo quasi frenetico, e spesso sono sfuggite all’osservazione, perché di natura diversa.

    Ma studiando l’Italia a partire dalla fine degli anni Sessanta, assumendo come data spartiacque quella della strage di piazza Fontana – il 12 dicembre 1969 -, possiamo ricondurre sotto la stessa cornice una serie di esempi differenti: lo stragismo, il terrorismo rosso e nero, una serie di epidemie (come il colera a Napoli negli anni Settanta), e inoltre terremoti, esondazioni, etc. Quaranta, cinquanta vicende definite “emergenza”, a cui è sempre corrisposta una produzione legislativa con caratteri di specialità, perché legata a un evento eccezionale.

    Da qui, decine e decine di fatti normativi, nati come temporanei, ma divenuti permanenti. Ecco il punto. Tutti restano permanenti o faticano enormemente a essere abrogati, superati. C’è dunque una tendenza irresistibile dei governi a fare delle emergenze non solo uno stile di governo, ma un paradigma di governo. Una tendenza piena di insidie, di cui occorre preoccuparsi. In particolare quando le leggi speciali, le normative d’eccezione incidono sulla libertà individuale. La preoccupazione dunque è confortata dall’analisi storica.

    La tutela della salute viene prima della tutela della libertà individuale? Sì e no

    Ma c’è anche un’altra questione fondamentale, centrale nella filosofia del diritto contemporanea: la tensione tra beni meritevoli di protezione che possono entrare in conflitto, perché l’affermazione dell’uno può mettere in discussione l’affermazione dell’altro. È la situazione che stiamo vivendo: il conflitto tra tutela della salute e libertà dei movimenti. La limitazione dei movimenti della persona è funzionale a tutelarne la salute, ma allo stesso tempo ne limita la libertà. Entrambi i beni sono meritevoli di tutela, entrambi sono costituzionalmente protetti, ed è molto difficile collocarli dentro una gerarchia permanente di priorità. La tutela della salute viene prima della tutela della libertà individuale? Sì e no. Il primato deve avere dei limiti. In ambito costituzionale, per esempio, la tutela della salute non può contraddire la volontà della persona tutelata. Anche il primato assegnato alla tutela della salute è, dunque, contraddittorio.

    La seconda questione che balza agli occhi è il conflitto tra tutela della salute e tutela della privacy. Il senso comune, l’orientamento collettivo, ci dice che la tutela della salute viene prima della privacy. Ma bisogna essere lucidi. Personalmente, posso accettare la riduzione della mia libertà individuale, la riduzione della tutela della riservatezza, ma pongo tre condizioni: la prima è cognitiva, intellettuale. Devo sapere che ciò a cui sto rinunciando è un bene preziosissimo. Poi c’è la temporaneità. Le limitazioni derivanti dalla prevalenza – in quella precisa fase-circostanza – di un bene sull’altro devono avere una “data di scadenza”. Terza condizione: verificare che non vi siano mezzi diversi per ottenere lo stesso scopo.

    Altrimenti si precipita nella posizione infantile che nega che possano esserci limitazioni. O che ogni limitazione rimandi a uno stato d’eccezione come premessa del dispotismo. Faccio notare che in questa vicenda non ha prevalso il meccanismo del regime dispotico, ma l’incertezza della decisione. Non le prove di un colpo di Stato, non la deformazione autoritaria delle relazioni tra cittadini e Stato, ma una condizione di grandissima incertezza, insicurezza, indecisione, approssimazione, perfino casualità.

    Ha appena spiegato che non c’è mai una gerarchia di priorità permanente, frutto di un’incessante negoziazione e conflitto tra forze sociali, partiti, cittadinanza. Ora, se è vero che l’esecutivo ha dimostrato un’incertezza radicale, più che una tendenza dispotica, e che i partiti hanno abdicato fin troppo facilmente, mi chiedo come valuta invece le forze sociali, in particolare quelle progressiste…

    Fatico a parlare di “forze”, perché non si sono viste le soggettività, le identità organizzate, i corpi sociali aggregati. C’è stata un’efficace e positiva attività sindacale, per negoziare la tutela della salute dei lavoratori. C’è stata una mobilitazione del volontariato e dell’associazionismo religioso e laico nel ruolo elementare, “vitale”, di assicurare i bisogni primari, la sopravvivenza fisica, il cibo. Ma non c’è stata una mobilitazione particolarmente ampia, che andasse oltre il perimetro tradizionale dei mobilitati, non ci sono state leve di volontari. Il perimetro non si è allargato.

    Occorre però tener conto che le condizioni erano le peggiori per la mobilitazione (e ciò spiega in parte anche l’assenza dei partiti, dei soggetti politico-sociali): il distanziamento sociale, certo motivato in termini di prevenzione e profilassi, ha prodotto alienazione, assenza di relazione. Quando parliamo di mobilitazione, sempre e comunque parliamo di relazione tra i corpi. La mancata relazione tra i corpi dovuta alla quarantena e all’assenza di movimenti non è stata surrogata da un altrettanto efficace mobilitazione on-line. Perché lo spazio online non ne ha la capacità.

    La natura, il cuore intimo, la radice profonda della politica è l’assembramento.

    Nella quarantena si dice di “evitare gli assembramenti”, ma la politica è assembramento. La natura, il cuore intimo, la radice profonda della politica è l’assembramento. La prossimità fisica, l’intimità corporea, quella relazione che comporta sudore, l’incontrarsi e scontrarsi dei corpi, l’affollamento, il pigiare, il pressare, sono condizione ineliminabile dell’azione collettiva, che poi si dispiega anche in forme ordinate, “igienicamente garantite”. Un dato confermato dal fatto che in queste settimane non sono emersi né una parola d’ordine né – lo dico ironicamente – un leader della quarantena, che si trattasse di un leader capace di mobilitare emozioni, sentimenti e azioni, o di un leader capace di contestare, disobbedire la quarantena.

    Sul cosa accadrà, prevalgono due letture. La prima sottolinea che le conseguenze economiche e sociali della crisi si faranno sentire per anni: corriamo il rischio di essere ridotti a “nuda vita”, alla necessità materiale, economica, biologica. L’altra enfatizza invece gli spazi di opportunità creati dalla crisi, premessa per nuove forme di organizzazione sociale, mutualismo, solidarietà, etc. Lei sembra oscillare tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà: da una parte ha scritto che “l’idea che dalla quarantena domestica si possa uscire ‘migliori’ è particolarmente insidiosa”, dall’altra si chiede però se non sia proprio “l’esperienza collettiva del lutto privo di consolazione – quelle bare sui camion militari verso la cremazione – a ridare significato a una parola ormai consunta come solidarietà”. Ci spiega meglio?

    Nei prossimi mesi ci sarà una vera e propria lotta di classe. Non c’è dubbio che una quota della popolazione si sia impoverita, e che un’altra quota si sia drammaticamente impoverita, senza possibilità o quasi di ripresa. Dal punto di vista sociale ed economico, la situazione sarà difficilissima.

    Ci deve essere una grande capacità di mobilitazione delle forze sociali – i sindacati sono chiamati a una prova come non avviene da mezzo secolo –, dei partiti, dei movimenti, delle organizzazioni di sinistra. Sarà molto dura, ma allo stesso tempo si torna anche alle questioni essenziali. Sta qui la possibilità di dare concretezza alla parola solidarietà, l’occasione per scoprire le proprie vere e profonde ragioni. L’impoverimento impone una capacità di orientamento, di conflitto, di mobilitazione a cui non ci si può sottrarre.

    L’impoverimento impone una capacità di orientamento, di conflitto, a cui non ci si può sottrarre

    In queste settimane mi sono interessato dei detenuti e ancor più della questione dell’immigrazione, della regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Per uscire da una situazione simile dobbiamo includere anche i braccianti irregolari per regolarizzarli, allargare le garanzie universalistiche, la capacità di protezione dei contratti nazionali e locali. La tensione tra gli operai che perdono il posto di lavoro e i migranti cacciati in un nero ancora più profondo è follia: mai come ora gli strati più poveri della società condividono un destino comune con quelli che fino a un anno fa erano i garantiti.

    O lo si capisce o si andrà incontro a uno sfaldamento mai conosciuto dal dopoguerra a oggi. Richiamo di perdere quel che i sociologi chiamano legame sociale: il fatto che la società abbia una sua coesione, che sia capace di resistere a tutte le tensioni terribili, a tutte le contraddizioni e lacerazioni. Finora, in tempi meno drammatici, questa capacità non è stata assicurata dall’intelligenza dell’azione della sinistra. Oggi o viene garantita o spariremo tutti.

    L’epidemia colpisce tutti, in modo orizzontale, ma alcune categorie vengono colpite più facilmente, più drammaticamente, perché più esposte: i detenuti tra questi. Ai cittadini viene chiesto di rispettare il distanziamento sociale. Ai detenuti delle carceri, invece, è imposto di non rispettarlo: il sovraffollamento è la norma. Tanto che, come scrive insieme a Marica Fantauzzi in un articolo sul numero di maggio-giugno della rivista Gli Asini, “la tempesta potrebbe arrivare da un momento all’altro”. L’epidemia poteva essere l’occasione per ripensare la cultura della pena e dei diritti in Italia: un’occasione persa?

    Seguo le vicende del carcere da 40 anni e non dimentico mai il fatto drammatico che interessano soltanto un’esigua minoranza della società italiana. Per la politica, poi, sono un argomento punitivo. Interessarsi di carcere fa perdere voti. L’epidemia porta alla luce nella maniera più violenta il paradigma carcerario, che lei ha sintetizzato. In carcere, il distanziamento sociale semplicemente non è applicabile. In carcere, la principale misura elaborata per combattere il virus non esiste. Non c’è.

    Ora, nel nostro articolo ne citiamo un altro, della criminologa di Firenze Sofia Ciufoletti, la quale ricorrendo al precedente della diffusione dell’influenza spagnola negli Stati Uniti ricorda come il virus all’epoca sia arrivato nel carcere di San Quentin in “ritardo”. L’ipotesi – non suffragata da dati certi – è che in una prima fase le istituzioni totali resistano alla penetrazione del virus, proprio per i loro tratti di isolamento, chiusura interna, separatezza, per poi rivelarsi più fragili degli altri ambienti sociali.

    Nel caso attuale, non posso che attribuire a una protezione taumaturgica di entità metafisiche, favorite dalle parole di papa Bergoglio – l’unico che si occupi dei detenuti – il fatto che nel sistema penitenziario italiano non ci sia una tragica diffusione dell’epidemia. Perché nelle carceri ci sono tutte le condizioni per la massima, pervasiva diffusione del contagio.

    È il sovraffollamento, che annichilisce la dignità umana ancor prima di determinare il contagio. Il sovraffollamento non è semplicemente un numero eccessivo di persone riunite nello stesso spazio. È un fatto fisico: secrezioni, flussi, sudori, aliti, corpi sovrapposti. Nel 40% delle celle italiane il buco in cui pisci e caghi è nello stesso metro quadrato in cui ti lavi le mani e cucini. È questa la realtà. Se ti va male, l’epidemia porta una strage; se non ti va male, la dignità dei detenuti rimane comunque straziata giorno dopo giorno.

    La storica della scienza Alison Bashford, autrice di molti libri sul rapporto tra igiene, scienza e storia politica, ha ricostruito gli stretti legami tra le pratiche della quarantena e le politiche migratorie, il nesso tra politiche sanitarie e razzismo. Oggi 3 Paesi su 4 hanno chiuso i confini, migliaia di migranti sono intrappolati in Niger, nel Sahel, sulle isole greche, sulle barche del Mediterraneo o del golfo del Bengala, mentre i governi adottano politiche migratorie più restrittive. Vecchi e nuovi confini vengono eretti, giustificati dall’emergenza sanitaria. Che conseguenze avrà tutto questo sull’idea di cittadinanza? Sarà sempre più “esclusiva”, selettiva, discriminante? Crescerà il razzismo?

    Da questo punto di vista, in Italia l’epidemia non ha prodotto catastrofi ideologiche, culturali, sociali, anche perché la destra sovranista, che poteva sollecitarle e alimentarle, si è dimostrata del tutto afona, inadeguata. Questi due mesi sono stati un totale, irreparabile fallimento politico, in particolare di Salvini, la cui sconfitta è senza attenuanti, almeno in questa fase (ciò non esclude che tra un anno possa ottenere consensi). Non c’è stata la caccia al cinese, all’africano, neanche la rivolta dei forconi, una jacquerie, un’insurrezione contro lo Stato centrale o l’Europa.

    Non credo alla propaganda della solidarietà, alla retorica antirazzista

    Difficile prevedere quel che accadrà dopo, per gli strati più esposti della società, e tra questi gli stranieri. Ma dipende solo da noi. Se nelle settimane prossime, il prima possibile, si arriverà a una regolarizzazione dei braccianti e delle colf, questo ragionevole provvedimento si rivelerà il più efficace strumento di inclusione sociale e integrazione tra stranieri e italiani. Oltre a essere ragionevole, dimostrerà che condividiamo il medesimo destino.

    Non credo alla propaganda della solidarietà, alla retorica antirazzista, credo invece che vi possano essere scelte politiche capaci di dimostrare ciò che la povertà del nostro vocabolario, la debolezza della nostra capacità di persuasione non riescono a spiegare: la politica dei confini, dei muri, dell’esclusione è una atto di autolesionismo. La relazione è l’unica risorsa disponibile. L’inclusione, il tratto che può connotare una politica di sinistra. Una politica di prospettiva.

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