La miccia della reazione a catena
Dopo decenni di indiscussa egemonia neoliberale, ci troviamo in eredità un mondo assai diverso da quello che i profeti di questa dottrina avevano immaginato e promesso. Da un lato, la crisi finanziaria ed economica globale ha ridisegnato gli assetti del capitalismo contemporaneo, messo in discussione da più parti fin dalle sue fondamenta; parallelamente, le tensioni sociali hanno innescato ondate di proteste forse uniche nella loro specie, in quanto a grado di decentralizzazione organizzativa e di diffusione transnazionale. Da un altro lato, ha preso piede un vocabolario all’insegna di espressioni dal tenore, per così dire, “socialisteggiante” (sharing economy, peer-to-peer production, economia collaborativa); queste etichette vanno a denotare nuove forme organizzative e culturali che trascendono (fino a che punto?) i modelli tradizionali di produzione e distribuzione del valore. Fortemente associati dal discorso pubblico all’impatto trasformativo dei media digitali si intrecciano quindi fenomeni reattivi di contestazione dello status quo e fenomeni proattivi di ricerca di soluzioni altre dalle logiche puramente di mercato (o prettamente stataliste).
Una lente analitica utile per inquadrare questi fenomeni è quella dell’azione collettiva. Con questo concetto si denota, nella teoria economica ed organizzativa, quella classe di azioni che richiedono a un insieme di persone di coordinarsi e cooperare per raggiungere uno scopo comune. Il grado di astrazione di questa categoria permette di formulare riflessioni di carattere generale: essa tiene infatti assieme processi di contribuzione a progetti cooperativi (di tipo anche strettamente economico) e fenomeni di mobilitazione collettiva e di movimento (orientati alla protesta o al cambiamento). Alla luce delle recenti trasformazioni legate alla diffusione dei nuovi media, è imprescindibile riflettere su se, come e quanto le tecnologie di comunicazione digitale ridefiniscano (o, addirittura, superino) la logica dell’azione collettiva così come classicamente intesa.
In un testo del 1965, divenuto un caposaldo del pensiero economico e organizzativo, Mancur Olson poneva per primo uno spiazzante quesito: come spiegare il successo dell’azione collettiva nella produzione di beni pubblici, laddove individui razionali e auto-interessati non avrebbero alcuna ragione di contribuirvi (Olson, 1965)? Una caratteristica costitutiva dei beni pubblici, infatti, è la loro natura non escludibile: se pulisco casa dopo una festa, non posso impedire a chi mi sta intorno di godere della pulizia per la quale non ha mosso un dito. Il dilemma dell’azione collettiva consiste quindi nel come superare il cosiddetto problema del free riding, ossia la tendenza razionale a voler fruire di qualcosa per la quale risulta possibile non sobbarcarsi i costi. E’ una constatazione tanto apparentemente banale quanto problematica: la presenza di un interesse diffuso per una causa (che sia un certo bene tangibile, o una mobilitazione per il cambiamento) non spiega di per sé la realizzazione di questa causa.
Tale dilemma ha fortemente influenzato buona parte della letteratura scientifica in materia. Sono numerosi infatti i contributi che cercano di fornire una risposta nei diversi casi empirici in cui i meccanismi individuati da Olson (la presenza di incentivi selettivi, mirati a superare l’effetto free riding, o di minoranze facoltose, estremamente interessate allo scopo) non sembrano sussistere. Questa gamma di “alternative funzionali” implica spesso un rilassamento degli assunti strettamente strumentali del paradigma olsonsiano, come: la ridefinizione dei confini analitici tra le nozioni di costo e beneficio (Hirshman, 1982); la considerazione di fattori identitari nella definizione dell’utilità individuale (Pizzorno, 1986); la presenza di aspettative legate agli effetti di reti sociali (Coleman, 1990). Tali soluzioni analitiche vanno infatti a contaminare l’impostazione razionalistica e meccanicistica, tipica dell’economia neoclassica, con elementi di carattere sociale, culturale o identitario.
Con l’avvento delle tecnologie di comunicazione digitale, diversi autori hanno avanzato tesi radicali riguardo il destino della categoria stessa di azione collettiva. Nell’ambito della teoria dei movimenti sociali, per esempio, è stato introdotto il concetto di “azione connettiva” elaborato da Bennett e Segeberg (2013), a sottolineare la diversa logica di aggregazione che sottende, in misura variabile, diverse forme contemporanee di mobilitazione. Da un lato, questa nuova logica d’azione mostra il potenziale di auto-organizzazione di reti decentralizzate che ricorrono all’utilizzo estensivo dei nuovi mezzi di comunicazione; dall’altro, sostengono gli autori, questo coincide anche con un processo di individualizzazione di contenuti e forme dell’azione stessa. Proprio la ridefinizione dei confini tra privato e pubblico, sottoprodotto delle pratiche di appropriazione delle nuove tecnologie, sarebbe centrale nell’evoluzione storica dell’azione collettiva (Bimber et al., 2005). In particolare, la natura tradizionalmente binaria dell’azione (partecipare / non partecipare) andrebbe sfumandosi in una sorta di continuum di partecipazione incrementale; questo favorirebbe il ruolo di “sostituti funzionali” che i nuovi media possono ricoprire, in certi casi, rispetto alle classiche organizzazioni formali. Argomenti analoghi hanno spinto a riconoscere un modello di produzione emergente, qualificabile come “peer production” (Benkler, 2002), che capitalizza il potenziale derivante dalla libera e orizzontale circolazione di conoscenza all’interno di reti decentrate. Infatti, a differenza del capitale fisico, il cui consumo è soggetto a rivalità e ne comporta l’inesorabile ammortamento, informazione e conoscenza (forme di capitale sempre più strategiche) si alimentano e valorizzano di pari passo con la loro libera circolazione.
Portando la discussione a un livello di astrazione e generalità maggiori, è possibile sviluppare una riflessione di carattere epistemologico attorno ad una domanda: qual è il rapporto tra le diverse dimensioni che caratterizzano la classe dell’azione collettiva? E, più in particolare, che ruolo hanno aspetti di carattere cognitivo e culturale in fenomeni spesso inquadrati da una prospettiva prevalentemente strategica e strutturale?
Uno degli argomenti più diffusi e diretti, riguardanti l’impatto organizzativo delle nuove tecnologie, fa riferimento alla notevole riduzione dei cosiddetti costi di transazione (ossia di quell’insieme di costi legati ad attività di coordinamento, implementazione e riduzione dei rischi), un concetto alla base della teoria istituzionale dell’economia (Coase, 1937). Che i media digitali abbiano facilitato e velocizzato dinamiche altamente impattanti sui costi di transazione è un dato auto-evidente: negli ambienti digitali, i processi collaborativi incontrano un livello di “attrito” estremamente basso, in virtù della fluidità comunicativa che introducono. Ma come la meccanica ci insegna, l’assenza di attrito non basta a generare lavoro: occorre applicare una forza per spostare una massa. Un passaggio analitico ulteriore è suggerito dai cosiddetti modelli della “massa critica” (Oliver e Marwell, 2001): sotto certe condizioni, il dilemma del free-riding può esser più facilmente superato nel caso in cui un numero minimo di attori fortemente interessati a uno scopo si attivi per primo, per qualche ragione contingente, così da trascinare numerosi altri attori in virtù di un effetto a cascata (“con tutta questa sporcizia, non prenderò mai l’iniziativa di pulire casa; se però qualcuno si attivasse per primo…”). Da questo punto di vista, la riduzione di attrito osservabile negli ambienti digitali non si traduce in una mera velocizzazione quantitativa ma assume, potenzialmente, i connotati di una “transizione di fase” legata a un effetto del tipo “faster is different” (Tufekci, 2011). I media digitali possono cioè trasformarsi da meri canali di scorrimento dell’azione, per quanto altamente lubrificati, a veri e proprio catalizzatori di processi che altrimenti non capitalizzerebbero l’esistenza di una massa critica latente, ma invisibile. Gli effetti di una massa critica sulle “funzioni di preferenza” individuali, per metterla in termini analitici, sono infatti una questione eminentemente percettiva; è evidente quindi che tali effetti dipendano largamente dagli schemi di comunicazione contestualmente disponibili, legati alla tecnologia comunicativa caratteristica di un certo frangente storico.
Quest’ultima considerazione lascia però da parte un aspetto non proprio banale della questione: assumendo che i media digitali riducano sensibilmente gli attriti intrinsechi a qualsiasi processo di coordinamento e che aumentino la natura auto-sostenuta di fenomeni che altrimenti richiederebbero un meccanismo più oneroso di alimentazione, che relazione intrattengono con il raggiungimento di questa massa critica? (Per certi versi, un problema di azione collettiva di ordine superiore, difficilmente spiegabile entro un paradigma puramente razionalistico).
Al fine di rispondere a questa domanda, probabilmente, è necessario abbandonare il mondo della mera speculazione teorica, e immergersi piuttosto nell’investigazione empirica delle numerose esperienze di “azione collettiva digitale” che il panorama contemporaneo ci offre. È necessario inoltre mettere in luce, per concludere questa breve riflessione, come argomentazioni attorno all’impatto delle nuove tecnologie sulle logiche dell’azione collettiva non possano limitarsi a sviscerarne l’aspetto organizzativo-strategico, ma debbano per forza di cose andare a investigarne la dimensione culturale-identitaria, anch’essa manifestante una specifica “logica d’azione”. Forse proprio in questo si può ricercare una spiegazione per quella sorta di “massa mancante”: la miccia della reazione a catena, materia oscura per il paradigma razionalistico olsonsiano, pare essere innescata da un corto-circuito tra le caratteristiche tecnologico-strutturali degli ambienti digitali e l’immaginario cognitivo e valoriale intessuto attorno a questi da concrete comunità e reti sociali.
Di questo discuteremo con Benjamin Mako Hill (Washington University), Paolo Gerbaudo (King’s College London), Bertram Niessen (cheFare) e Adam Arvidsson (UniMi), in un seminario organizzato da Laboratorio Expo, il 27 Marzo a Milano alle ore 16.30, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, in via Conservatorio 7. Laboratorio Expo è un progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ed Expo Milano 2015 curato da Salvatore Veca.
Bibliografia
COASE Robert H. (1937), The Nature of the Firm, Economica New Series, vol. 4, n. 16, pp. 386-405
COLEMAN James S. (1990), Fundations of Social Theory, Harvard University Press, Harvard
PIZZORNO Alessandro (1986), Sul confronto intertemporale delle utilità, “Stato e Mercato”, 1986, n. 16, pp. 3-25
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