Sui social per diventare tutti autistici
La difficoltà di socialità è tra i mali più diffusi e insidiosi che affliggono la nostra contemporaneità, ed è destinata a esserlo per molto tempo ancora.
La «socialità», potremmo dire, è quell’approccio, quella pratica, che nasce dalla curiosità: restare aperti ad avventure rischiose e mai tentate, che ci inquietano proprio per l’ignoto che racchiudono. È l’atteggiamento che ci fa tenere a freno o, meglio ancora, ci fa sopprimere l’impulso di fuggire dalla comunicazione, l’impulso a isolarci, a costruire steccati, a chiudere la porta a doppia mandata. La socialità ci fa decollare verso quella «fusione degli orizzonti» di cui parlava Hans-Georg Gadamer, ma ancora piú necessario è spianare la strada all’«unione delle forze», a quella solidarietà che è la gemella siamese della cooperazione.
In qualche punto della strada che conduce dalla socialità alla solidarietà dev’esserci l’acquisizione di capacità nuove: le capacità imprescindibili di mettere il mondo in comune, di interagire con la differenza; le capacità senza le quali è impossibile superare la paura dell’«estraneo», sconosciuto e dunque imperscrutabile, e quel senso di spaesamento – fin troppo frequente e quasi paralizzante –, il disagio o lo sbigottimento che proviamo di fronte all’incertezza (non sapere come procedere).
Il problema, però, è che molti aspetti della società attuale tendono a impedire l’acquisizione di tali capacità, o a indurci nella tentazione di evitare tutta la fatica che serve ad acquisirle.
Possono farlo in modi velati o spudorati, direttamente (tramite aperte raccomandazioni «che fanno appello alla ragione») o per vie traverse (modificando gli scenari dell’interazione e gli strumenti dell’agire).
Il rifugio dell’esistenza online che ci protegge dalla sconfortante diversità di quella offline è uno dei metodi più frequenti – forse il più significativo ed efficace – all’origine di questi effetti poco opportuni.
Oggi, a quanto pare, è l’impero che ha ormai invaso, annesso e colonizzato circa la metà delle nostre giornate – l’impero «online» – a dare il la al motivetto che sempre più persone vogliono canticchiare insieme.
Il suo impatto sul comune (in realtà sempre più diffuso e con buone probabilità di diventare universale) savoir- être e savoir-faire si fa ogni giorno più vasto e profondo.
La parte online di questo universo duale che abitiamo ci permette di nascondere sotto il tappeto le sfide poste dal convivere con la diversità; una possibilità pressoché inconcepibile nella realtà offline: a scuola, sul lavoro, nel nostro quartiere o per le strade della città.
Invece di affrontare queste sfide a muso duro e imboccare la strada lunga, dissestata e tortuosa che porta dalla socialità alla cooperazione e dalla cooperazione alla solidarietà, alletta i suoi visitatori con il lusso – impossibile da concedersi altrove – di escluderle, renderle irrilevanti e ignorarle.
Di conseguenza ciò che offre è una sorta di comfort zone, un’area dove è vietato l’ingresso all’estraneo – e dunque a qualunque problema, una bolla avulsa dal caos delle realtà offline.
Le «reti di amici» di Facebook sono l’equivalente digitale di comunità chiuse fin troppo fisiche; solo che, a differenza delle loro repliche offline, non hanno bisogno di telecamere di sorveglianza e guardie armate all’ingresso: bastano le dita armate di mouse e del magico tasto «canc» di chi quelle reti le intreccia/gestisce/consuma.
All’endemica socialità degli esseri umani viene così risparmiato il rischio di sconfinare nella pratica insidiosa della collaborazione e di quella «fusione degli orizzonti» che tale pratica porta con sé; viene risparmiato il rischio di trasformarsi, alla fine, in solidarietà. Ma se non si è disposti ad accettare questo rischio, le capacità sociali cadono dapprima in disuso e infine nell’oblio, e a quel punto la presenza dell’estraneo si farà ogni giorno più minacciosa, disturbante, ripugnante, terrificante e, parallelamente, lo sforzo necessario per una buona forma di convivenza con l’altro risulterà sempre più inaffrontabile e, di fatto, impossibile.
A Kurt Lewin, lo psicologo tedesco naturalizzato americano considerato da molti il padre della psicologia sociale, fu affidato negli anni della Seconda guerra mondiale il compito di aiutare i soldati che al ritorno dal fronte manifestavano i sintomi di una disabilità rara e mai diagnosticata prima.
Quei soldati erano perfettamente in grado di seguire routine rigide, ripetitive e dai contorni ben definiti, ma tendevano a cadere in uno sventurato e impotente stato confusionale ogni volta che si ritrovavano in un contesto che richiedeva loro una scelta tra mosse alternative. Per cogliere la natura della loro disabilità, Lewin divise in due il concetto di «azione»: quella che si attua a livello «pratico» e quella che si manifesta su un piano «astratto», suggerendo che il disturbo specifico di chi si era ritrovato in prima linea era la perdita della capacità di agire sul secondo dei due livelli.
Trovo di grande rilevanza ai fini della nostra discussione il tipo di terapia che Lewin mise a punto per affrontare quel grave disturbo: uno spazio vitale concepito affinché chi ci si muoveva dentro non fosse mai costretto a confrontare, calcolare, o effettuare una scelta tra più opzioni (per esempio, era prevista un’unica porta in ogni stanza, un solo interruttore, linee di un determinato colore tracciate sul pavimento e che conducevano a una, e a una sola, destinazione).
E in realtà, nessun visitatore esterno di questo spazio semplificato e improntato a una Eindeutigkeit («inequivocabilità») avrebbe potuto percepire una qualche «anormalità» o patologia nel comportamento di chi lo abitava; in altre parole, fino a quando coloro che ci vivevano non si avventuravano al di fuori della loro area perimetrata per unirsi a quel mondo che richiede la capacità di passare e agire, alternativamente, da un piano all’altro.
E così mi domando… ma i «social network» non ricordano in qualche misura l’ingegnosa soluzione messa a punto da Kurt Lewin, anche se intendono contrastare disturbi di altro genere? In entrambi i casi si ricorre allo stesso espediente: fornire una comfort zone ai soggetti che si sentono a disagio e sperduti in un «mondo reale» irto di rischi incalcolabili, e che pone standard di abilità sociali che loro non sono in grado di soddisfare, oppure non sono disposti a provarci, o abbastanza interessati per farlo.
Una zona in cui i problemi non possono entrare, una zona sicura, all’interno della quale è possibile condurre una «vita normale», seguire i propri desideri, soddisfare i propri bisogni e realizzare i propri sogni, senza dover pagare il prezzo che ci verrebbe invece richiesto se cercassimo di ottenere tutto questo nella realtà offline, e senza le competenze che dovremmo prima conquistare e tradurre in pratica.
Non è probabile che, come nel caso dei pazienti di Lewin, un espediente di questo tipo non curerà il disturbo che li affligge, ma al massimo permetterà loro di trincerarsi e sopportare la propria vita, mitigando le pressioni che potrebbero rivelarne l’inconsistenza, rimuovendo il bisogno di una cura così essenziale e urgente?
Non riuscirà a ottenere quell’effetto trasformando l’anormalità nella norma, rendendo di conseguenza ogni modello di interazione alternativo ancora più disturbante, ancora più ansiogeno e, nel complesso, ancora più difficile da seguire? E, giusto per rimanere in tema, non rischia di rendere coloro che soffrono di quella tipologia di autismo nata online ancora meno capaci di operare nel mondo offline – il mondo che definisce patologico il modo autistico di essere nel mondo –, dunque ancora più dipendenti dallo scudo offerto dalla safety zone online?