Martedì 15 luglio 2025
Turismo e Sesso, binomio (im)perfetto
 
Illusione e Desiderio in The White Lotus
Scritto da: Carolina Guidi

I viaggi si somigliano tutti, le foto anche. Quello che dovrebbe essere un momento di libertà e scoperta si è trasformato in un rituale globalizzato: stesse mete, stessi scatti, stessi filtri. L’esperienza è stata sostituita dalla realizzazione del contenuto perfetto. Per adeguarsi ai tempi dei social, le culture locali vengono semplificate, ridotte ad immagini aesthetic dando così al turista l’illusione di un'autenticità che é di fatto una messa in scena. Questa rappresentazione incide anche sui corpi - meglio se femminili e non occidentali - che diventano parte dell’immaginario turistico. Anche il desiderio sessuale si piega alle leggi del mercato turistico che riducono la persona ad elemento del paesaggio, un prodotto da consumare per completare l’esperienza.
 

The White Lotus (HBO, e in Italia per Sky), andato in onda con il finale della terza stagione lo scorso 6 aprile, sembra proprio voler puntare il dito, con una satira pungente, contro il turismo della società occidentale. E lo fa benissimo. Ambientata in resort di lusso tra Hawaii, Sicilia e Thailandia, la serie di Mike White usa l’apparente leggerezza della vacanza, e di uno spazio apparentemente neutro ed idilliaco, per raccontare tutto ciò che la vacanza non riesce a cancellare: le tensioni di classe, le disuguaglianze e i desideri scomodi.
 

È una sensibilità che risuona con quella di Michel Houellebecq, sebbene in toni molto differenti. In Piattaforma (2001) - ma già anche in Le particelle elementari (1998) - fare turismo non serve a esplorare il  mondo, ma a sopportarlo. In Piattaforma, in particolare, il viaggio diventa un dispositivo che mette in scena desideri, solitudini e squilibri: Houellebecq, attraverso il protagonista, riflette su come il turismo non sia un atto di fuga dalla realtà, ma un tentativo di compensare una vita priva di significato.
 

Resort di lusso e villaggi turistici, intesi come luoghi chiusi in cui si concentrano dinamiche consumistiche ed estetizzazione dell’esperienza “culturale”, sono infatti il prisma ideale per osservare gli effetti del turismo occidentale su persone e cose.
 

“Dopo aver camminato per qualche minuto nelle strade di Patong Beach, mi resi conto che lì, su quei due chilometri di litorale, era radunato tutto ciò che il mondo civile era riuscito a produrre in materia di turisti”. (Piattaforma, Edizione Bompiani 2001, p.111)

Nei resort di White Lotus, tutto è pensato per offrire al turista un senso di benessere e autenticità, ma si tratta di un’illusione costruita, che nasconde la natura artificiale dell’esperienza. La perfezione promessa con ambienti curati, sorrisi costanti, esperienze programmate finisce per diventare una messinscena, che coinvolge tanto chi consuma quanto chi produce. Emblematico in questo senso è il personaggio di Armond (Murray Bartlett): direttore del resort hawaiano, mantiene una facciata impeccabile mentre accumula frustrazione e rancore verso gli ospiti, soprattutto verso Shane (Jake Lacy), un giovane “cocco di mamma”, ricco e arrogante, ossessionato dalla camera sbagliata assegnatagli per la sua luna di miele. La spirale autodistruttiva che caratterizza Armond nel corso dei sei episodi rappresenta proprio il momento in cui l’illusione si rompe: non riesce più a sostenere il peso della finzione e perde il controllo. Uno dei momenti più emblematici si verifica durante l’ora della cena, quando sbotta:

“I’ve had to watch them shove wagyu beef and truffle mac and cheese into their gaping  maws every night this week. It’s disgusting.”
 

Le vicende dei protagonisti in The White Lotus sembrano caratterizzate da una forma di sospensione nel tempo e nello spazio: si è ovunque e in nessun luogo. Riprendendo la celebre definizione di Marc Augé, il villaggio turistico si configura dunque come un non-lieu: uno spazio impersonale, progettato per il transito e il consumo, dove le relazioni sono rarefatte e l’identità individuale si dissolve nell’anonimato.

Come aeroporti e centri commerciali, anche il villaggio turistico si fonda su logiche di standardizzazione, intercambiabilità e consumo. Ogni dettaglio, dalle camere agli spettacoli, è pensato per offrire un’esperienza uniforme e rassicurante. L’identità si riduce spesso a una carta di credito o a un braccialetto colorato che segna l’accesso ai servizi, in interazioni che non producono relazioni reali.
 

La peculiarità del resort turistico, specialmente nella sua versione all-inclusive è insomma quella di rappresentare un ambiente interamente costruito per proteggere il turista dall’altro ma offrendogli la percezione di esotico. In The White Lotus, questa logica è portata all’estremo. Ogni elemento architettonico e decorativo sembra essere pensato per evocare un senso di autenticità: le camere arredate in stile locale, il personale vestito con abiti tradizionali, i piatti tipici serviti nei ristoranti che offrono una cucina internazionale ma ambientata.

Nulla viene lasciato al caso, e ogni dettaglio è una simulazione codificata di esoticità. La scelta delle inquadrature, in questo senso, con scorci mozzafiato - acque cristalline, palme, e onde al tramonto - sembrano suggerirci proprio questo: immagini esotiche ma stereotipate che ci aspettiamo di trovare.


Le tre stagioni della serie sfruttano la struttura chiusa del resort per costruire una sorta di microcosmo sociale, in cui ogni personaggio entra con un bagaglio sociale che ne condiziona i comportamenti e le relazioni; e la narrazione si svolge interamente all’interno di questa bolla dove tutto è solo apparentemente armonioso. Sottotraccia, ma non troppo, White mette in scena una rappresentazione potente delle disuguaglianze che attraversano il mondo del turismo globale: i privilegi del turista si manifestano quotidianamente ed emerge chiaramente la distanza tra ospiti e personale. Ospiti e staff non si mescolano mai davvero, permettendo al regista di mettere in scena una gerarchia simbolica perfetta: in alto il turista occidentale, bianco, ricco, istruito; in basso il personale spesso razzializzato e femminilizzato. Soprattutto nella prima stagione, questa separazione si percepisce nel rapporto tra gli ospiti (bianchi) e ricchi e i pochi personaggi locali, come Kai (Kekoa Scott Kekumano), giovane hawaiano che lavora nel resort. Quando il ragazzo viene coinvolto in un furto, la narrazione tocca il punto più evidente della colonialità turistica: il luogo del desiderio per i turisti è, per i locali, il segno tangibile di una perdita.

“That land used to belong to my family. Then they took it, turned it into a hotel. Now I get paid to dance for them.”

La seconda e la terza stagione della serie mettono invece l’accento sulle relazioni sessuali ma non come semplice parentesi narrativa. Queste diventano una lente attraverso cui leggere dinamiche di potere e desiderio. Dalla Sicilia al Sud-Est asiatico, il corpo entra nel paesaggio del turismo e diventa parte dell’esperienza: in alcuni casi l’accordo è chiaro, in altri resta più sfumato. Nella seconda stagione della serie, il resort siciliano si presenta come contenitore erotico, dominato da desiderio, gelosia, sessualità e potere. I personaggi di Lucia (Simona Tabasco) e Mia (Beatrice Grannò), due ragazze siciliane che offrono servizi sessuali (a pagamento) agli ospiti, portano alla luce la fragilità dei rapporti e della moralità degli altri personaggi ribaltando le dinamiche di classe attraverso il corpo e l’inganno.  

Lucia: “Smettila di fare la romantica! Devi essere pratica, tu devi prendere tutto quello che puoi ora che sei giovane!”  

Nella terza stagione, infine, la narrazione si sposta nel lussuoso resort in Thailandia, dove si intrecciano le storie di nuovi ospiti Nel quinto episodio, Frank (Sam Rockwell), incontra il suo vecchio amico Rick  (Walton Goggins) in un bar di Bangkok. Durante il loro incontro, il primo condivide con il secondo il suo passato in Thailandia caratterizzato dalla sua lotta contro la dipendenza sessuale e il suo percorso verso la sobrietà attraverso il buddismo.

“...but I picked Thailand because I always had a thing for Asian girls, you know. And  when I got here I was like a kid in a candy store: if you got money, no attachments, nothing to do... I started partying, it got wild. I was picking up girls every night always different ones... I was out of control. I became insatiable.” 

La scena evidenzia un nodo cruciale del turismo sessuale: Frank sceglie la Thailandia per “a thing for Asian girls”, dietro la sua confessione c’è una sorta di frustrazione che trova sfogo nel consumo di corpi esotici, percepiti come più disponibili. È lo stesso meccanismo che Houellebecq descrive, con toni decisamente più espliciti, in Piattaforma, dove il turismo sessuale viene affrontato senza filtri e diventa il punto d’arrivo ultimo del sistema turistico. Nel romanzo è infatti centrale la percezione della Thailandia come paradiso sessuale in cui le donne sono più aperte e hanno come obiettivo quello di dare piacere all’uomo: Valérie - la donna che Michel, il protagonista, lascerà entrare nella sua vita proprio quanto pensava fosse destinata alla monotonia - sembra però essere l’unica eccezione alla regola.
 

“Ed è proprio questa la tua dote straordinaria: a te piace dare piacere. Una cosa che gli occidentali non sanno più fare: offrire il proprio corpo come qualcosa di gradevole, dare piacere senza pretendere nulla in cambio. Hanno perduto completamente il senso del dono. Per quanto si affannino, non riescono più a sentire il sesso come qualcosa di naturale.” (p.254)
 

Al netto delle ovvie differenze di stile e contenuto, tanto White quanto Houellebecq offrono in definitiva due  prospettive provocatorie, sul turismo contemporaneo. Entrambe raccontano ciò che il turismo causa ai luoghi  - omologazione, consumo, spettacolarizzazione - ma soprattutto ciò che fa alle persone. In entrambi i casi, l’esperienza del viaggio non è mostrata come liberazione o cambiamento, ma come una fuga in cui si mescolano di tensioni, contraddizioni e desideri. The White Lotus, gioca sull’ambiguità: non denuncia apertamente, si limita a osservare. Piattaforma, invece, è diretto ed esplicito mettendo in scena un mondo dove il turismo internazionale diventa una forma di evasione per una società emotivamente impoverita, sessualmente repressa e culturalmente stanca.

Eppure, in mezzo a tutto questo, qualcosa si apre: Michel, cinico e ormai disilluso si lascia andare nella relazione con Valérie. Quinn, che all’inizio della prima stagione è immerso nell’indifferenza e nell’iperconnessione, decide alla fine di restare sull’isola e di unirsi alla squadra di canottieri locali. Due gesti semplici, attraverso i quali si intravede una via d’uscita dalla bolla.

Foto di Flo P su Unsplash

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