Martedì 14 luglio 2020
In Emilia Romagna, i nuovi centri culturali fanno rigenerazione informale e uniscono le comunità
 
I cambiamenti politici, economici e sociali che hanno contraddistinto negli ultimi vent’anni il nostro Paese e le altre economie avanzate hanno avuto, tra le tante conseguenze, quella di portare a un ripensamento delle modalità di risposta alle istanze sempre più diffuse di equità, sostenibilità e benessere. Policy maker e amministrazioni locali hanno cercato, infatti, di attivare processi maggiormente collettivi e partecipati al fine di realizzare beni e servizi che portassero a un miglioramento del benessere delle comunità. Le iniziative di questo tipo, spesso identificate con il termine innovazione sociale, hanno riguardato i diversi campi del vivere quotidiano: dall’educazione al welfare fino all’inclusione sociale e l’economia.

Anche la cultura non ha fatto eccezione. Pur tra tante difficoltà (economiche, politiche e recentemente anche sanitarie), si è andata affermando una maggiore consapevolezza dell’importanza di adottare politiche culturali che non si limitassero a sostenere i luoghi istituzionalmente e tradizionalmente deputati ad essa, ma anche iniziative di tipo più informale e nate su spinta della società civile.

L’idea di fondo, condivisa anche dalla letteratura scientifica (e.g., Chesbrough et al. 2006; Cottino e Zandonai 2012; Moulaert et al. 2005), è stata quella di adottare un approccio sistemico a supporto di collaborazioni che travalicano i tradizionali confini tra pubblico e privato, imprese e soggetti non profit, istituzioni e società civile. Avere territori contraddistinti da cultura e creatività diffusa, infatti, permette di creare le condizioni contestuali in grado di migliorare il benessere sociale, sostenendo al tempo stesso i processi creativi e innovativi necessari per lo sviluppo economico (e.g., Bonomi, 2015; Faggian et al. 2017; García et al. 2015).

Avere territori contraddistinti da cultura e creatività diffusa permette di migliorare il benessere sociale


Queste considerazioni permettono di comprendere come mai negli ultimi anni si sia assistito alla diffusione di spazi informali dedicati alla cultura e alla creatività. Con questo termine intendiamo un insieme ampio e variegato di luoghi che possono andare dai cinema di quartiere ai circoli culturali e studi artistici condivi, fino ai cosiddetti spazi collaborativi (co-working, incubatori, hub creativi, ecc.) che, oltre ad offrire una serie di servizi a supporto di aziende e lavoratori, si contraddistinguono in alcuni casi anche per proporre anche una vera e propria programmazione culturale (si pensi ad esempio a BASE Milano).

Pur nella loro diversità e con le loro specificità (organizzative, di governance, ecc.), questi luoghi sono accumunati dall’obiettivo di rispondere con modalità nuove (spesso più spontanee e partecipate) ai bisogni culturali delle comunità locali, svolgendo al tempo stesso un’importante funzione di catalizzatori di relazioni.

Questi spazi, infatti, si rivolgono a pubblici diversi (singoli cittadini, gruppi informali, associazioni, aziende, ecc.) che vengono “ospitati” con modalità e tempistiche differenti (in modo permanente o temporaneo, come utilizzatori o come co-progettatori di servizi e progetti, ecc.). In tal senso, essi diventano importanti luoghi di ritrovo e di scambio di idee, dove spontaneità e incontri accidentali alimentano le dinamiche relazionali necessarie per creare quell’atmosfera creativa che è fondamentale per sostenere processi di confronto, cross-fertilization e collaborazione all’interno degli ecosistemi creativi (Montanari, 2018).

Le possibilità offerte in tema di rigenerazione urbana costituiscono un ulteriore elemento in grado di spiegare il forte interesse mostrato da attori pubblici, privati e dalle stesse comunità verso questo tipo di spazi. Molti spazi culturali informali, infatti, sono stati aperti in luoghi caduti in disuso come, ad esempio, ex-fabbriche, edifici pubblici chiusi oppure palazzi privati abbandonati, e si sono mostrati efficaci nel contrastare i fenomeni di degrado ambientale e sociale che contraddistinguono normalmente le aree abbandonate.

Se spesso le iniziative di questo tipo sono state volute direttamente dagli enti locali che hanno cercato di destinarvi risorse pubbliche, è altrettanto frequente imbattersi in esperienze che sono l’esito di processi spontanei e nati dal basso. Le comunità locali hanno visto, infatti, nell’organizzazione di spazi culturali di questo tipo la possibilità di riportare a nuova vita luoghi, quartieri o anche intere città, andando allo stesso tempo a favorire la coesione sociale e preservare il senso di identità locale.

Gli spazi informali in Emilia-Romagna: un fenomeno in espansione

Gli spazi culturali e creativi informali sono un fenomeno difficile da intercettare in modo puntuale e sistematico. Per cercare di avere una loro fotografia (seppur parziale), abbiamo condotto nei mesi scorsi una ricerca sulle esperienze presenti in Emilia-Romagna. In particolare, abbiamo effettuato una ricerca desk tramite l’incrocio di keywords sui principali motori di ricerca e consultando alcuni key informants locali (gestori di spazi collaborativi, rappresentanti di associazioni, esponenti delle amministrazioni locali).

La ricerca ha fatto emergere un quadro molto variegato legato alla presenza di 140 spazi che sono nati negli ultimi anni con l’obiettivo di animare la vita culturale e sociale delle città dell’Emilia-Romagna. Dalla comparazione dei diversi spazi e delle loro caratteristiche principali sono emersi tre elementi principali.

Il primo riguarda la loro distribuzione geografica, in quanto questi spazi non sono presenti solo nelle città capoluogo di provincia (dove tuttavia vi è una maggiore diversificazione delle tipologie di spazi presenti), ma anche nei centri di minori dimensioni. In questi casi, si osserva come gli spazi culturali e creativi informali presentino un’elevata polifunzionalità come tentativo di offrire una proposta culturale il più possibile ampia in aree decentrate contraddistinte da una minore presenza di organizzazioni culturali rispetto alle aree urbane più grandi.

La ricerca ha fatto emergere un quadro molto variegato legato alla presenza di 140 spazi che sono nati negli ultimi anni


Per esempio, possiamo citare il caso di Made a Scandiano (RE) oppure di Casa Corsini a Fiorano e Hub in Villa a Formigine (MO) dove l’amministrazione comunale ha reimpostato il concept dei centri giovani aumentandone il carattere informale e lo spettro di attività offerte.

Questi spazi offrono infatti uno spazio di coworking, un fablab, una caffetteria, sale polivalenti, spazi di studio e atelier di creazione. La presenza di spazi nei comuni poco abitati non è solo legata al tentativo di innovare determinate politiche pubbliche, ma è da leggere anche in funzione delle peculiarità socio-economiche di un territorio, dalla presenza di distretti industriali (come il Fablab di Cotignola, in provincia di Ravenna) a quelle di comunità di professionisti operanti nei settori creativi. È questo il caso ad esempio dei giovani creativi residenti a Castiglione dei Pepoli (BO) che hanno creato Officina 15, uno spazio che riunisce illustratori, grafici, disegnatori, videomaker, performer, scrittori e fotografi.

Il secondo elemento emerso riguarda la forte vocazione degli spazi informali a essere attori di rigenerazione urbana. Tra i numerosi progetti contraddistinti da questo elemento possiamo citare la riqualificazione del deposito exATR di Forlì, il mercato Sonato nell’area dell’ex-mercato del quartiere San Donato di Bologna, oppure gli ex magazzini fluviali del Po di Volano gestiti dal consorzio Wunderkammer di Ferrara e il progetto di rinnovo della darsena di Ravenna (Darsenza Pop-up).

La rigenerazione urbana è però anche il criterio ispiratore di una politica regionale che nel caso del progetto dei Laboratori Urbani Aperti ha portato alla rigenerazione di edifici storici in dieci città dell’Emilia-Romagna. In generale, è interessante notare come il discorso di rigenerazione che non riguardi solo il rinnovo architettonico degli stabili, ma anche (e soprattutto) gli aspetti sociali.

Ad esempio, le esperienze dei centri sociali autogestiti bolognesi (Livello 57, Vag61, TPO) sono connessi al tentativo di ripristinare una socialità in luoghi caduti in disuso mediante un approccio creativo che coinvolge non solo produzioni artistiche e proposte culturali, ma anche nuovi modi di stare insieme e fare comunità.

Il terzo elemento riguarda l’elevata ibridazione in termini di pubblici coinvolti, attività e servizi offerti, funzioni d’uso e finalità.

Gli spazi informali si contraddistinguono per un approccio concentrico: a un core di attività si aggiungono progressivamente altri layers che spingono l’operatività di uno spazio anche verso direzioni molto diverse tra loro.

Ad esempio, l’Estragon di Bologna non è solo un locale in cui ascoltare concerti e ballare, ma una realtà urbana che porta l’esperienza della fruizione musicale anche negli spazi dei giardini pubblici, adattando la propria offerta al format del micro-festival urbano funzionale per le stagioni estive, come nel caso del progetto BOtanique.

Allo stesso modo, i teatri di quartiere non offrono solo produzioni e spettacoli teatrali, ma anche corsi di recitazione, progetti speciali per le scuole e interventi aperti con il pubblico e cittadini, come il Teatro del Tempo di Parma o il centro teatrale Mamimo di Reggio Emilia.

Vi è chi è più orientato a una proposta civica e culturale, come Labas, che insieme a proiezioni cinematografiche organizza doposcuola, progetti ludici-educativi per bambini, sportello di ricerca lavoro, attività sportive interculturali, un mercato contadino e un’area dedicata alla creatività musicale nei locali occupati dell’ex convento San Leonardo nel centro di Bologna.

Vi è chi è più focalizzato sull’aspetto imprenditoriale, come la Factory Grisù di Ferrara, dove in una ex caserma dei vigili del fuoco convivono nuove imprese dell’industria creativa ferrarese, un agrimercato coperto, e spazi aperti ad associazioni e cittadini per attività e manifestazioni culturali.

Anche dal punto di vista della governance esiste un’elevata varietà. Vi sono innanzitutto iniziative private, in cui il rinnovo di un’immobile diventa opportunità per aprire un centro con un’offerta ampia di servizi e attività che vanno dal coworking, alla formazione e servizi di consulenza, sino alla possibilità di essere inseriti in un network globale (è questo il caso di Impact Hub di Reggio Emilia oppure di Cubo a Parma).

A queste si aggiungono sia altre esperienze con una spiccata vocazione sociale (ad esempio, il Binario 49 che ha organizzato nel quartiere “difficile” di via Turri a Reggio Emilia la mostra del fotografo brasiliano Sebastião Salgado in collaborazione con lo stesso autore), sia situazioni in cui è il pubblico che investe direttamente su una struttura, eventualmente dandola in gestione a un soggetto privato.

È questo il caso, ad esempio, del Laboratorio aperto ex AEM di Modena, gestito da un soggetto gestore RTI con capofila la Fondazione Giacomo Brodolini oppure dell’hub creativo Spazio 2 di Piacenza, uno spazio di aggregazione giovanile rinnovato gestito da alcune cooperative su affidamento comunale. Vi sono anche casi di gestione interamente pubblica, come per il neonato Nuovo Forno del Pane di Bologna, nato da un’idea del MAMbo, del Comune di Bologna e dell’Istituzione Bologna Musei per sostenere artisti che nel museo hanno sempre visto un punto di riferimento con il quale confrontarsi nell’ambito delle loro pratiche.

La gestione degli spazi informali: reti, identità, comunità

La fotografia che è emersa dalla ricerca è quella di una realtà complessa e in continuo divenire. Gli spazi informali sono luoghi difficili da categorizzare: sono spazi di incontro, produzione, innovazione e sperimentazione per la cultura, di spettacolo e creatività ma anche per sperimentare nuovi modi di fare socialità e comunità. Sono anche spazi in cui poter fare impresa e sviluppare nuovi prodotti e servizi in collaborazione con professionisti, start-up e istituzioni.

Come è possibile gestire una simile complessità?

Combinando l’analisi desk con alcune recenti ricerche che abbiamo condotto in altri ambiti territoriali (Razzoli, Montanari e Di Paola, 2020; Sgaragli e Montanari, 2016), proviamo di seguito a delineare tre ambiti d’azione che sembrano contraddistinguere le esperienze più consolidate.

Il primo ambito d’azione riguarda il ruolo di brokerage (Lingo e O'Mahony 2010; Obstfeld 2005) che questi spazi possono svolgere nel presidiare e supportare le dinamiche relazionali tra i diversi attori presenti in un territorio, soprattutto tra quelli che non hanno consolidate relazioni.

Riuscire a supportare il tessuto connettivo di un ecosistema locale, eventualmente colmando alcuni buchi strutturali, è importante al fine di creare un’atmosfera di fiducia e collaborazione che favorisca lo scambio di informazioni e conoscenze complesse, la definizione di regole di condotta condivise e lo sviluppo di iniziative congiunte.

Supportare il tessuto connettivo di un ecosistema locale crea un’atmosfera di fiducia e collaborazione


Questa funzione può essere assolta solo se il soggetto gestore interpreta il proprio ruolo di broker in modo neutrale, e riesce a farsi percepire dagli altri attori del territorio come un attore “neutro”, scevro cioè da interessi parziali o appartenenze. Per essere più efficaci, inoltre, gli spazi devono comprendere i fabbisogni dei diversi attori in modo da implementare una serie di azioni (dall’organizzazione di momenti di socializzazione, a eventi di confronto e disseminazione, fino a vere e proprie call for action su specifici campi d’azione) che riescano a coinvolgere i diversi attori.

Sempre in tema di connessioni, è importante anche creare connessioni con soggetti operanti in altri ecosistemi italiani e internazionali, per favorire una maggiore circolazione di idee ed esperienze e rafforzare l’apertura al cambiamento e il potenziale innovativo dell’ecosistema allontanando i rischi tipici di una condizione di autoreferenzialità e isolamento.

Il secondo ambito d’azione riguarda la creazione di un forte legame con l’identità territoriale. Gli spazi che riescono a creare senso di appartenenza, legittimazione e reputazione sono quelli che sono più capaci di porsi in continuità con le caratteristiche di un determinato contesto geografico, da quelle materiali e fisiche (edifici, paesaggio, layout urbanistico, ecc.) a quelle immateriali e simboliche (tradizioni, memorie e narrative collettive, valori, ecc.).

È importante sottolineare come essere in continuità non significa solo preservare l’esistente e/o il passato, ma anche aggiornarlo, rivederlo e attualizzarlo. Riuscire a creare un forte legame con gli elementi identitari di un territorio contribuisce a determinare un senso di attaccamento allo spazio da parte dei potenziali stakeholder, definendo anche modelli di comportamento comuni e favorendo, in ultima istanza, l’operato quotidiano di tali spazi. Questo aspetto tocca anche il modo in cui a sua volta l’immobile stesso che accoglie lo spazio sia o diventi nel tempo “identitario”.

Il terzo e ultimo ambito d’azione riguarda l’engagement, cioè la costruzione di un senso di comunità tra i diversi utilizzatori che generi un senso di valore condiviso e che possa fungere da driver motivazionale primario. Per riuscire a presidiare efficacemente questo ambito, gli spazi devono attivare percorsi di ascolto che valorizzino i punti di vista dei diversi attori in un’ottica di reciprocità, dando anche la possibilità ai diversi soggetti coinvolti (e coinvolgibili) di essere parte di un disegno condiviso che percepiscano davvero come proprio.

In particolare, gli spazi che derivano da iniziative di attori istituzionali devono creare cantieri aperti di co-progettazione su macro-temi trasversali alle politiche pubbliche in modo da affiancare alla parte di ascolto quella di progettazione attiva, creando nuove forme di partecipazione sociale e valorizzando il capitale umano e cognitivo del territorio. Ciò può contribuire a fare emergere e consolidare una logica di collaborazione, dove il contaminare le idee e il co-progettare non sono azioni spot da attivare al momento del bisogno, ma anche (e soprattutto) l’elemento fondante della cultura dell’ecosistema locale. È importante che questa funzione generi ritorni di valore per tutti gli attori coinvolti nel processo, pena nel tempo la mancanza di incentivi alla partecipazione ad azioni comuni.

Essere in continuità non significa solo preservare l’esistente e/o il passato, ma anche aggiornarlo


Una considerazione finale vale sugli effetti causati dalla recente emergenza sanitaria globale. Le norme in tema di distanziamento sociale sono state particolarmente vincolanti per gli spazi informali. La crisi Covid 19 ha messo in crisi l’essenza stessa della fisicità dei luoghi in generale, e di quelli oggetto di questo articolo in particolare. In alcuni casi, ha messo in forte discussione il loro modello di business, basato sull’utilizzo degli spazi su base giornaliera.

Alla ricerca di un nuovo modello, molti hanno sperimentato, con successo, l’organizzazione di palinsesti di attività online, che sebbene non possano sostituire il valore della copresenza fisica, hanno senz’altro centrato gli obiettivi di mantenere viva la community, ed in alcuni casi di espanderla, e di rimanere visibili, preparando il terreno ad un ritorno graduale delle attività in presenza.

Tuttavia, nel medio periodo, il modello di utilizzo di questi spazi informali dovrà necessariamente cambiare. Alcuni si stanno indirizzando verso forme “blended” con complementarietà tra attività online ed in presenza. Altri stanno rivedendo l’allocazione degli spazi, riequilibrando l’utilizzo degli stessi tra flussi a stock. Altri ancora stanno lavorando ad un re-indirizzo della propria mission, focalizzandola sulla prossimità, cioè sul valore aggiunto che questi spazi possono rappresentare nei confronti dei cittadini che gli vivono intorno.

L’emergenza pandemica non ha rappresentato solo un momento di forte crisi, ma anche di rinnovamento che ha spinto molti gestori a cambiare le modalità con cui gli spazi possono espletare la propria funzione di elemento catalizzatore del tessuto connettivo locale. I risultati di queste innovazioni saranno visibili solo tra qualche mese e potranno essere a loro volta oggetto di discussione.

Riferimenti bibliografici

  • Bonomi, A. (2015). Puglia creativa. Economia della cultura, 25(3-4), 387-406.

  • Chesbrough H.W., Vanhaverbeke W., West J. (2006). Open Innovation: Researching a new paradigm. Oxford: Oxford University Press.

  • Cottino P., Zandonai F. (2012) Progetti d’impresa sociale come strategie di rigenerazione urbana: spazi e metodi per l’innovazione sociale. Euricse Working Paper, 42.

  • Faggian, A., Partridge, M., Malecki, E. J. (2017). Creating an environment for economic growth: creativity, entrepreneurship or human capital? International Journal of Urban and Regional Research, 41(6), 997-1009.

  • García, M., Eizaguirre, S., Pradel, M. (2015). Social innovation and creativity in cities: A socially inclusive governance approach in two peripheral spaces of Barcelona. City, Culture and Society, 6(4), 93-100.

  • Moulaert F., Martinelli F., Swyngedouw E., González S. (2005). “Towards Alternative Model(s) of Local Innovation”, Urban Studies, 42(11), pp. 1969-1990.

  • Lingo, E.L., S. O'Mahony. 2010. Nexus Work: Brokerage on Creative Projects. Administrative Science Quarterly 55(1) 47-81.

  • Montanari, F. (2018) Ecosistema creativo. Organizzazione della creatività in una prospettiva di network. Franco Angeli, Milano.

  • Obstfeld, D. 2005. Social networks, the Tertius lungens and orientation involvement in innovation. Administrative Science Quarterly 50(1) 100-130.

  • Razzoli, D., Montanari, F., Di Paola, G. (2020). Identità territoriale e senso del luogo nei processi di innovazione sociale e rigenerazione urbana: il caso Sassari Living Lab. Working Papers della Fondazione G. Brodolini.

  • Sgaragli F., Montanari F. (2016) Libro bianco di Milano sull’innovazione sociale. Accelerare l’ecosistema locale per l’innovazione sociale. Comune di Milano.

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