Giovedì 26 agosto 2021
La trasformazione silenziosa: il pensiero occidentale e quello cinese
Scritto da:
François Jullien

Chiamerò trasformazione silenziosa una trasformazione che avviene senza rumore, della quale dunque non si parla. Silenziosa in due sensi: avviene senza preavviso, non si pensa nemmeno di parlarne. La sua impercettibilità non rientra nell’ordine dell’invisibile, al contrario si produce in modo manifesto, sotto i nostri occhi, a poco a poco. Però non si nota, per due ragioni connesse: perché è contemporaneamente globale e continua, non si distingue mai a sufficienza, in un punto o in un altro, o da un momento all’altro, per poter introdurre una rottura che possa fissare la nostra attenzione.
Oserei dire che non si distingue mai abbastanza per poterla distinguere. Visto che tutto vi si trova coinvolto e che essa si produce nella durata, non c’è nulla che assuma un rilievo sufficiente per farla emergere. Quando infine emerge, la si coglie e se ne parla come di un risultato.
Perciò questa trasformazione sarà definita non invisibile, ma “silenziosa”: non è isolabile, non è localizzabile e si confonde con il suo svolgimento. La vista è il senso del discontinuo e del locale: le palpebre si aprono e si chiudono come una tenda che si alza e si abbassa; l’udito è il senso della continuità. Si dice “tapparsi le orecchie”, ma non si può chiudere un orecchio: non si ascolta più, ma si intende ancora. Analogamente, si guarda necessariamente da una parte e dall’altra, si guarda un aspetto o un altro, sempre parzialmente e localmente, ma si ascolta globalmente; mentre la vista, proiettandosi al di fuori, si porta momentaneamente su un punto o su un altro, l’orecchio è quell’imbuto o cornetta che raccoglie costantemente da tutte le parti.
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Pubblichiamo in collaborazione con Feltrinelli editore un estratto da Essere o vivere di François Jullien[/caption]
Una simile trasformazione sarà detta silenziosa perché, rientrando nell’uditivo, come senso del circostante e del continuo, tende comunque a sfuggire alla nostra attenzione. Contro il privilegio che i greci hanno accordato alla vista, e all’“occhio dell’anima”, quando i nostri occhi non vedono più è il nostro orecchio (è anche un orecchio dello spirito) che bisogna formare, che dobbiamo imparare a esercitare per entrare nella percezione globale e continua dei processi. Tanto è vero che il corso delle cose prosegue di notte come in pieno giorno (Baudelaire): “Ascolta, mia cara, ascolta la dolce notte che cammina”.
L’articolazione da considerare è quella che connette questo svolgimento silenzioso e ciò che, per contrasto, chiamerò il suo affioramento sonoro. Direi addirittura: più la trasformazione è silenziosa nel suo corso, più la sua conclusione sarà sonora e farà rumore quando esplode. Tutto quello che non viene percepito nel suo cammino ci investe tanto più violentemente. Oppure, detto al contrario, l’evento è tanto più sonoro quanto più la trasformazione che l’ha prodotto è stata discreta ed è avanzata senza alcuna allerta. Ci si può domandare, facendo deflagrare questo mito: un “evento” esiste effettivamente in modo isolato, si ritaglia un tempo producendo in esso una rottura (e-venit)?
Non prendiamo forse come un sorgere improvviso, che si distacca nel momento singolare, ciò da cui invece l’evento si è prodotto tanto sordamente – “notturnamente”, se posso osare questo avverbio – da sfuggirci? Non è forse una trasformazione silenziosa tutto ciò che si definisce con quel termine, che sembra il più neutro ma è in verità così pesante e poco sottile, opaco, che è “realtà”? In natura non si percepiscono i fiumi scavare il loro letto, né i venti erodere le cime, tanto la loro azione è diffusa e continua, eppure sono loro che hanno disegnato a poco a poco il rilievo che abbiamo sotto gli occhi e che forma il paesaggio.
Oppure prendiamo il riscaldamento climatico. Esso mette in gioco, nella durata, tanti di quei fattori diversi e correlati (ed è un fenomeno di tale globalità) che non percepiamo la terra riscaldarsi; solo dopo si constata che i ghiacciai si sono sciolti e che i banchi di pesci sono risaliti più a nord o si sono immersi in acque più profonde. Oppure consideriamo la Storia: le rivoluzioni sono tanto più sonore e fanno rumore quanto più non si sono sapute cogliere le trasformazioni lente, globali e continue, fatte di mutamenti progressivi e di evoluzioni simultanee, delle quali esse sono lo sbocco fragoroso. 2. Non si percepiscono i figli crescere; non ci si percepisce invecchiare. Poiché è tutto in noi che invecchia senza mai fermarsi, noi non ci percepiamo mentre invecchiamo.
È per questo che in Europa se ne è fatta un’età, uno stato, un ente (“la vecchiaia”), nonostante la difficoltà di coglierne l’inizio effettivo: quando ho cominciato a invecchiare? Ben prima che nasciamo la morte cellulare comincia a fare il suo cammino, il processo è troppo continuo perché si possa porre una data e, poiché riguarda tutto in noi, esso non si lascia specificare, separare, in alcun “luogo” di noi stessi. “Tutto”, cioè non solo i capelli che diventano bianchi, ma anche la luminosità dello sguardo e il timbro della voce, il colore del viso e la grana della pelle... La postura, i gesti, l’andatura... E il pensiero, il sonno... Tutto: non si finirà mai di dire “tutto”.
E siccome è “tutto” che si trasforma, un “tutto” di cui non si potrà mai fare la rassegna completa né si potrà mai contare fino in fondo, siccome è “tutto” in noi che invecchia, niente se ne allontana mai abbastanza, isolatamente, per farsi notare – se non aneddoticamente (come il famoso primo capello bianco delle donne di trent’anni davanti allo specchio). Poi, un giorno, ci capita davanti una fotografia della nostra giovinezza e gridiamo: “Ah, come sono invecchiato!”. Evento “sonoro”, anche se lo si contiene in petto e lo si tiene per sé: sorge improvvisa quella constatazione, a titolo di risultato, che fa sì che ci si riconosca appena. E ci si domanderà allora, dubitando all’improvviso della propria identità: sono ancora “io”, lo stesso “soggetto”? Noi viviamo una separazione amorosa come un evento: un giorno, gli amanti litigano fragorosamente. Si accusano rumorosamente l’un l’altro, in quanto “soggetti”, precisamente un “tu” e un “io”, senza più riguardo e attenzione per ciò che nella situazione si è silenziosamente – insidiosamente – trasformato; senza comprendere ciò che da crepa è diventato fessura, fenditura, faglia, breccia e infine fossato – il gap – al punto che oggi i due sono lì a contemplare i danni, a constatare il risultato.
Un silenzio, una reticenza, un “niente” o una “sfumatura”, qualcosa che è passato allora per aneddotico e che era un mero “incidente”, ha fatto silenziosamente il suo cammino, ha scavato sordamente il suo letto, a poco a poco ha contaminato e invaso tutto – fino a oggi, quando i due scoprono di essere effettivamente diventati estranei l’uno all’altra. Nel corso delle ore e dei giorni, alcuni possibili si sono impercettibilmente ritratti; un’intimità si è impercettibilmente disfatta, un non-detto si è accentuato, un muro d’indifferenza si è solidificato, senza che essi sappiano da dove tutto ciò sia venuto e senza che se ne siano accorti. E di certo senza cattiva “volontà”.
Un bel giorno il muro che si è andato costruendo si alza definitivamente tra loro, insuperabile, e salta agli occhi. Fino a che punto ne sono essi stessi i responsabili, a causa delle loro scelte, in quanto soggetti d’iniziativa, come continuano reciprocamente e maldestramente a dirsi accusandosi l’un l’altro? Non si tratta piuttosto di un’evoluzione d’insieme che ha minato a poco a poco la loro relazione nel lungo periodo, un’evoluzione tanto più dannosa in quanto è loro sfuggita, perché non l’hanno avvertita avanzare e non ne hanno mai trovato una ragione – un supporto – per parlarne?
Il potere discreto implicato nella trasformazione silenziosa è tale che essa porta così, senza che si faccia attenzione, a ciò che infine si afferma come un completo rovesciamento: senza accorgersene, si è passati dall’amore all’indifferenza. La potenza all’opera è tanto più grande nella misura in cui, retrospettivamente – per quanto il risultato ci sorprenda – l’impressione è che tutto sia accaduto naturalmente, in confronto con il passato; tutto è derivato dalla situazione, ed è stato portato dallo svolgimento delle cose. Per quanto sconvolgente sia tutto ciò, ci sembra che vada da sé.
Quello che un tempo avremmo creduto impossibile e che non avremmo neanche potuto immaginare è risultato così nettamente da questo svolgimento silenzioso da non avere più presa su di esso per potervisi opporre, o anche solo per pensare di stupirci.
“Spostamento(i) sotterraneo(i) – trasformazione(i) silenziosa(e)”, si dice in cinese (Wang Fuzhi), per indicare quell’impercettibile cammino senza rumore, di cui non si pensa di parlare ma il cui risultato, alla fine, si impone. La prima lezione da trarre, come precedentemente per la salute, riguarda la vigilanza da esercitare per udire questa dimensione discreta del mutamento. Il pensiero cinese ci educa proprio a questo, perché coglie in ogni stato una trasformazione, in ogni situazione una propensione; la sua aspirazione non è stata tanto quella di raddoppiare il mondo, tra il fisico e il metafisico, ma piuttosto quella di apprendere il gioco delle influenze e delle coincidenze che tutti i fattori del mondo esercitano correlativamente gli uni sugli altri tessendo questo mondo in rinnovamento.
Il pensiero cinese impara così a distinguere l’inclinazione che dal minimo, dal locale, porta gradualmente al globale, e dall’infimo porta all’infinito (cfr. Zhongyong, 23). In questo modo ci insegna a prestare attenzione per individuare gli indizi minimi di una trasformazione che nel suo fondo sfugge (il “Cielo”) poiché è al contempo “naturale”. Piuttosto che fossilizzarsi sull’opposizione (platonica) tra visibile e intelligibile, che formano due livelli dell’Essere, il pensiero cinese tende a scrutare la transizione che porta all’affioramento, quando il fenomeno esce appena dall’impercettibilità, allo stadio del “sottile” (wei), dello schizzo, e semplicemente spunta in seno al visibile.
Dallo stadio della manifestazione ostentata e rumorosa impara a risalire alla “fonte” (yuan), al tempo dell’“avvio” (nozione di ji nel Classico dei mutamenti), quando comincia a malapena a intendersi l’evoluzione futura, e tuttavia la si può già preannunciare seguendo quei lineamenti. Il pensiero cinese ci aiuta così a capire più da vicino la processualità implicata nella trasformazione silenziosa, o quello che ho precedentemente definito con un’espressione familiare, che a questo punto bisogna sottoporre a riflessione: “farsi strada”.
Infatti, resta da chiarire come si articoli, da una parte, il tempo lungo della trasformazione silenziosa che sfugge all’attenzione e, dall’altra, l’improvviso accadere del suo affioramento sonoro, quello che fa l’“evento”. Si potrebbe credere che si tratti di una rottura; in ogni caso, dall’uno all’altro, ciò che si percepisce è una discontinuità. Non si vede la spiga crescere; poi, un mattino, ci si accorge all’improvviso che è matura e pronta per essere tagliata. Oppure, nel corso dell’apprendimento, non si vede il progresso mentre si compie; poi, un giorno, ci si rende conto all’improvviso e si “realizza” che si è “arrivati”. Tra la pazienza dell’attesa e lo zampillare del risultato, il tempo presente, mediano, sfugge. “Come con un salto”, dice laconicamente Mencio (VII, A, 41): ed è proprio perché la progressività è silenziosa che ci si rende conto solo in un secondo tempo, con sorpresa, del vantaggio al quale essa conduce, quando il risultato è già là. Ma questo zampillare del risultato, che avviene “come” con un salto, introduce discontinuità solo in apparenza.
Di tutto ciò potrà beneficiare la nostra lettura della Storia. Quando Braudel ha denunciato la storia evenemenziale, quella che si imparava a scuola, fatta di date, azioni e grandi personaggi, fatta di re che salgono sul trono o che muoiono, che fanno la guerra o firmano trattati – in breve, tutto ciò che ha chiamato “evento sonoro” – ha dovuto riconoscere al tempo stesso, sotto questo staccato febbrile, quello che non ha potuto definire altrimenti che “tempo lungo”, la durata “lenta” o anche la “quasi immobilità” della Storia. Ma quest’ultima espressione non era un’espressione limite per uno storico? Ora, che cos’è il passaggio, per esempio (il suo esempio), dal “feudalesimo” al “capitalismo” in Europa, da intendersi su quattro secoli, dal XIV alla fine del XVIII, come mutamento insieme globale e continuo, sia economico, finanziario, sociale, che politico e ideologico, di conseguenza senza eroi e senza eventi, e anche senza luoghi precisi (avviene ad Anversa come a Genova), senza date o nomi da memorizzare, ma di cui Braudel ha fatto il suo grande cantiere? Che cos’è se non proprio una “trasformazione silenziosa”? A questo punto però bisogna esaminare il concetto di trasformazione silenziosa, più che in senso retrospettivo, in senso prospettivo; o, da concetto descrittivo qual è, non bisogna considerarlo nemmeno come prescrittivo, ma in quanto capace di sostituire l’impossibile metodo o la modellizzazione che ostacola.
Se c’è un “profitto” (li) da trarre dalle trasformazioni silenziose, questo sta nel fatto che sono più efficaci delle azioni eclatanti, di cui si parla e che fanno sensazione ma che, in quanto locali, momentanee e dipendenti dal progetto del soggetto, assomigliano sempre bene o male alla rappresentazione (teatrale) e al miracolo (il deus ex machina della Storia). Nello stesso tempo non è forse fatale che questo beneficio, essendo riconosciuto solo in un secondo tempo, tardivamente – sempre che lo si riconosca –, non sia considerato come merito nostro (i grandi uomini politici lo sanno)?
Portato dalla situazione che si è provocata, il beneficio sembra derivare “naturalmente” senza saper attirare l’attenzione e ancor meno la retribuzione. Il grande merito di chi ha saputo innescare queste trasformazioni, lasciandole procedere da sé, non si vede. Egli si confonde con la sua riuscita; è per questo che c’è effettivamente riuscita, una riuscita assimilata dalla situazione e non la forzatura che si fa notare immediatamente, ma che produce inevitabilmente resistenza e contro-effetto. Così si prescrivono degli “atti” psichiatrici (in ambito medico, s’intende) perché essi hanno un inizio e una fine definiti, sono decisi e giustificati da un agente responsabile, perché si possono sommare e contabilizzare, quindi retribuire.
Ma sono davvero i più efficaci? O che cos’è una “cura” in psicoanalisi, se non appunto una trasformazione silenziosa che si fa strada lenta, inudibile, fino a rendere di nuovo percorribile la vita psichica? Ma si può riconoscere una trasformazione silenziosa quando essa è diffusa, quando sfugge al potere e non è assegnabile? Si potrà mai rivendicarla? Come si capisce bene, la questione non è solo teorica. Del (vero) grande generale “non c’è niente da lodare”, come diceva il Sunzi, perché ha saputo far maturare silenziosamente la vittoria così bene che la si crede “facile” (e non si pensa dunque di lodarla); questo problema si ritrova identico in ogni gestione dei processi, dunque anche in politica.
Si preferisce annunciare misure e gesti eclatanti di cui vantarsi in anticipo, piuttosto che innescare mutamenti discreti che, facendosi strada in modo notturno, potrebbero effettivamente invertire la tendenza (per esempio, oggi, a proposito della disoccupazione e dei cambiamenti sociali da incentivare). Ma quando sapremo fare della “trasformazione silenziosa” un concetto strategico che illumina la “maturazione” e il suo potere di farsi strada? In Europa, la nostra concezione dell’efficacia è legata all’evenemenziale, attraverso la valorizzazione dell’atto, quindi allo spettacolare e all’eroico; ai nostri occhi l’efficacia assomiglia sempre, più o meno, all’epopea; e questo è ancora più vero nel regime mediatico che per la sua stessa funzione, legato com’è all’auditel, rende le cose sonore invece di rivolgersi a ciò che è discreto. Attraverso “piccole frasi” molto commentate o attraverso i sondaggi ripetuti senza posa, senza dare tempo al tempo, bisogna a tutti i costi creare l’“evento” (di cui si parla), e la vita democratica ne viene alterata.
E ancora: su quali trasformazioni silenziose, che costituiscono la realtà della nostra società, c’è stata l’occasione di pronunciarsi e di votare? Non sappiamo quasi mai contare su queste trasformazioni avviate in sordina, che si fanno strada in silenzio e danno in seguito i loro frutti, che si impegnano in modo discreto e hanno presa sul corso delle cose perché si lasciano portare da esso. Assorbite dalla situazione, le trasformazioni silenziose procedono senza strombazzare, senza lasciarsi localizzare, in modo “evasivo”, e non si possono identificare. Bisogna dunque imparare a dare uno statuto a questo evasivo, non identificabile e non localizzabile, perché è ciò che nel modo più radicale ci fa uscire dal pensiero dell’Essere e da quanto esso rileva prima di tutto: la volontà di stabilire un posto per ogni “cosa” e di assegnare.
[© Giangiacomo Feltrinelli Editore]
Illustrazione: collage di Enea Brigatti
Oserei dire che non si distingue mai abbastanza per poterla distinguere. Visto che tutto vi si trova coinvolto e che essa si produce nella durata, non c’è nulla che assuma un rilievo sufficiente per farla emergere. Quando infine emerge, la si coglie e se ne parla come di un risultato.
Perciò questa trasformazione sarà definita non invisibile, ma “silenziosa”: non è isolabile, non è localizzabile e si confonde con il suo svolgimento. La vista è il senso del discontinuo e del locale: le palpebre si aprono e si chiudono come una tenda che si alza e si abbassa; l’udito è il senso della continuità. Si dice “tapparsi le orecchie”, ma non si può chiudere un orecchio: non si ascolta più, ma si intende ancora. Analogamente, si guarda necessariamente da una parte e dall’altra, si guarda un aspetto o un altro, sempre parzialmente e localmente, ma si ascolta globalmente; mentre la vista, proiettandosi al di fuori, si porta momentaneamente su un punto o su un altro, l’orecchio è quell’imbuto o cornetta che raccoglie costantemente da tutte le parti.
[caption id="attachment_212251" align="aligncenter" width="650"]

Una simile trasformazione sarà detta silenziosa perché, rientrando nell’uditivo, come senso del circostante e del continuo, tende comunque a sfuggire alla nostra attenzione. Contro il privilegio che i greci hanno accordato alla vista, e all’“occhio dell’anima”, quando i nostri occhi non vedono più è il nostro orecchio (è anche un orecchio dello spirito) che bisogna formare, che dobbiamo imparare a esercitare per entrare nella percezione globale e continua dei processi. Tanto è vero che il corso delle cose prosegue di notte come in pieno giorno (Baudelaire): “Ascolta, mia cara, ascolta la dolce notte che cammina”.
L’articolazione da considerare è quella che connette questo svolgimento silenzioso e ciò che, per contrasto, chiamerò il suo affioramento sonoro. Direi addirittura: più la trasformazione è silenziosa nel suo corso, più la sua conclusione sarà sonora e farà rumore quando esplode. Tutto quello che non viene percepito nel suo cammino ci investe tanto più violentemente. Oppure, detto al contrario, l’evento è tanto più sonoro quanto più la trasformazione che l’ha prodotto è stata discreta ed è avanzata senza alcuna allerta. Ci si può domandare, facendo deflagrare questo mito: un “evento” esiste effettivamente in modo isolato, si ritaglia un tempo producendo in esso una rottura (e-venit)?
Non prendiamo forse come un sorgere improvviso, che si distacca nel momento singolare, ciò da cui invece l’evento si è prodotto tanto sordamente – “notturnamente”, se posso osare questo avverbio – da sfuggirci? Non è forse una trasformazione silenziosa tutto ciò che si definisce con quel termine, che sembra il più neutro ma è in verità così pesante e poco sottile, opaco, che è “realtà”? In natura non si percepiscono i fiumi scavare il loro letto, né i venti erodere le cime, tanto la loro azione è diffusa e continua, eppure sono loro che hanno disegnato a poco a poco il rilievo che abbiamo sotto gli occhi e che forma il paesaggio.
Oppure prendiamo il riscaldamento climatico. Esso mette in gioco, nella durata, tanti di quei fattori diversi e correlati (ed è un fenomeno di tale globalità) che non percepiamo la terra riscaldarsi; solo dopo si constata che i ghiacciai si sono sciolti e che i banchi di pesci sono risaliti più a nord o si sono immersi in acque più profonde. Oppure consideriamo la Storia: le rivoluzioni sono tanto più sonore e fanno rumore quanto più non si sono sapute cogliere le trasformazioni lente, globali e continue, fatte di mutamenti progressivi e di evoluzioni simultanee, delle quali esse sono lo sbocco fragoroso. 2. Non si percepiscono i figli crescere; non ci si percepisce invecchiare. Poiché è tutto in noi che invecchia senza mai fermarsi, noi non ci percepiamo mentre invecchiamo.
Poiché è tutto in noi che invecchia senza mai fermarsi, noi non ci percepiamo mentre invecchiamo
È per questo che in Europa se ne è fatta un’età, uno stato, un ente (“la vecchiaia”), nonostante la difficoltà di coglierne l’inizio effettivo: quando ho cominciato a invecchiare? Ben prima che nasciamo la morte cellulare comincia a fare il suo cammino, il processo è troppo continuo perché si possa porre una data e, poiché riguarda tutto in noi, esso non si lascia specificare, separare, in alcun “luogo” di noi stessi. “Tutto”, cioè non solo i capelli che diventano bianchi, ma anche la luminosità dello sguardo e il timbro della voce, il colore del viso e la grana della pelle... La postura, i gesti, l’andatura... E il pensiero, il sonno... Tutto: non si finirà mai di dire “tutto”.
E siccome è “tutto” che si trasforma, un “tutto” di cui non si potrà mai fare la rassegna completa né si potrà mai contare fino in fondo, siccome è “tutto” in noi che invecchia, niente se ne allontana mai abbastanza, isolatamente, per farsi notare – se non aneddoticamente (come il famoso primo capello bianco delle donne di trent’anni davanti allo specchio). Poi, un giorno, ci capita davanti una fotografia della nostra giovinezza e gridiamo: “Ah, come sono invecchiato!”. Evento “sonoro”, anche se lo si contiene in petto e lo si tiene per sé: sorge improvvisa quella constatazione, a titolo di risultato, che fa sì che ci si riconosca appena. E ci si domanderà allora, dubitando all’improvviso della propria identità: sono ancora “io”, lo stesso “soggetto”? Noi viviamo una separazione amorosa come un evento: un giorno, gli amanti litigano fragorosamente. Si accusano rumorosamente l’un l’altro, in quanto “soggetti”, precisamente un “tu” e un “io”, senza più riguardo e attenzione per ciò che nella situazione si è silenziosamente – insidiosamente – trasformato; senza comprendere ciò che da crepa è diventato fessura, fenditura, faglia, breccia e infine fossato – il gap – al punto che oggi i due sono lì a contemplare i danni, a constatare il risultato.
Un silenzio, una reticenza, un “niente” o una “sfumatura”, qualcosa che è passato allora per aneddotico e che era un mero “incidente”, ha fatto silenziosamente il suo cammino, ha scavato sordamente il suo letto, a poco a poco ha contaminato e invaso tutto – fino a oggi, quando i due scoprono di essere effettivamente diventati estranei l’uno all’altra. Nel corso delle ore e dei giorni, alcuni possibili si sono impercettibilmente ritratti; un’intimità si è impercettibilmente disfatta, un non-detto si è accentuato, un muro d’indifferenza si è solidificato, senza che essi sappiano da dove tutto ciò sia venuto e senza che se ne siano accorti. E di certo senza cattiva “volontà”.
Un bel giorno il muro che si è andato costruendo si alza definitivamente tra loro, insuperabile, e salta agli occhi. Fino a che punto ne sono essi stessi i responsabili, a causa delle loro scelte, in quanto soggetti d’iniziativa, come continuano reciprocamente e maldestramente a dirsi accusandosi l’un l’altro? Non si tratta piuttosto di un’evoluzione d’insieme che ha minato a poco a poco la loro relazione nel lungo periodo, un’evoluzione tanto più dannosa in quanto è loro sfuggita, perché non l’hanno avvertita avanzare e non ne hanno mai trovato una ragione – un supporto – per parlarne?
Il potere discreto implicato nella trasformazione silenziosa è tale che essa porta così, senza che si faccia attenzione, a ciò che infine si afferma come un completo rovesciamento: senza accorgersene, si è passati dall’amore all’indifferenza. La potenza all’opera è tanto più grande nella misura in cui, retrospettivamente – per quanto il risultato ci sorprenda – l’impressione è che tutto sia accaduto naturalmente, in confronto con il passato; tutto è derivato dalla situazione, ed è stato portato dallo svolgimento delle cose. Per quanto sconvolgente sia tutto ciò, ci sembra che vada da sé.
Quello che un tempo avremmo creduto impossibile e che non avremmo neanche potuto immaginare è risultato così nettamente da questo svolgimento silenzioso da non avere più presa su di esso per potervisi opporre, o anche solo per pensare di stupirci.
Il pensiero cinese impara così a distinguere l’inclinazione che dal minimo, dal locale, porta gradualmente al globale, e dall’infimo porta all’infinito
“Spostamento(i) sotterraneo(i) – trasformazione(i) silenziosa(e)”, si dice in cinese (Wang Fuzhi), per indicare quell’impercettibile cammino senza rumore, di cui non si pensa di parlare ma il cui risultato, alla fine, si impone. La prima lezione da trarre, come precedentemente per la salute, riguarda la vigilanza da esercitare per udire questa dimensione discreta del mutamento. Il pensiero cinese ci educa proprio a questo, perché coglie in ogni stato una trasformazione, in ogni situazione una propensione; la sua aspirazione non è stata tanto quella di raddoppiare il mondo, tra il fisico e il metafisico, ma piuttosto quella di apprendere il gioco delle influenze e delle coincidenze che tutti i fattori del mondo esercitano correlativamente gli uni sugli altri tessendo questo mondo in rinnovamento.
Il pensiero cinese impara così a distinguere l’inclinazione che dal minimo, dal locale, porta gradualmente al globale, e dall’infimo porta all’infinito (cfr. Zhongyong, 23). In questo modo ci insegna a prestare attenzione per individuare gli indizi minimi di una trasformazione che nel suo fondo sfugge (il “Cielo”) poiché è al contempo “naturale”. Piuttosto che fossilizzarsi sull’opposizione (platonica) tra visibile e intelligibile, che formano due livelli dell’Essere, il pensiero cinese tende a scrutare la transizione che porta all’affioramento, quando il fenomeno esce appena dall’impercettibilità, allo stadio del “sottile” (wei), dello schizzo, e semplicemente spunta in seno al visibile.
Dallo stadio della manifestazione ostentata e rumorosa impara a risalire alla “fonte” (yuan), al tempo dell’“avvio” (nozione di ji nel Classico dei mutamenti), quando comincia a malapena a intendersi l’evoluzione futura, e tuttavia la si può già preannunciare seguendo quei lineamenti. Il pensiero cinese ci aiuta così a capire più da vicino la processualità implicata nella trasformazione silenziosa, o quello che ho precedentemente definito con un’espressione familiare, che a questo punto bisogna sottoporre a riflessione: “farsi strada”.
Infatti, resta da chiarire come si articoli, da una parte, il tempo lungo della trasformazione silenziosa che sfugge all’attenzione e, dall’altra, l’improvviso accadere del suo affioramento sonoro, quello che fa l’“evento”. Si potrebbe credere che si tratti di una rottura; in ogni caso, dall’uno all’altro, ciò che si percepisce è una discontinuità. Non si vede la spiga crescere; poi, un mattino, ci si accorge all’improvviso che è matura e pronta per essere tagliata. Oppure, nel corso dell’apprendimento, non si vede il progresso mentre si compie; poi, un giorno, ci si rende conto all’improvviso e si “realizza” che si è “arrivati”. Tra la pazienza dell’attesa e lo zampillare del risultato, il tempo presente, mediano, sfugge. “Come con un salto”, dice laconicamente Mencio (VII, A, 41): ed è proprio perché la progressività è silenziosa che ci si rende conto solo in un secondo tempo, con sorpresa, del vantaggio al quale essa conduce, quando il risultato è già là. Ma questo zampillare del risultato, che avviene “come” con un salto, introduce discontinuità solo in apparenza.
Di tutto ciò potrà beneficiare la nostra lettura della Storia. Quando Braudel ha denunciato la storia evenemenziale, quella che si imparava a scuola, fatta di date, azioni e grandi personaggi, fatta di re che salgono sul trono o che muoiono, che fanno la guerra o firmano trattati – in breve, tutto ciò che ha chiamato “evento sonoro” – ha dovuto riconoscere al tempo stesso, sotto questo staccato febbrile, quello che non ha potuto definire altrimenti che “tempo lungo”, la durata “lenta” o anche la “quasi immobilità” della Storia. Ma quest’ultima espressione non era un’espressione limite per uno storico? Ora, che cos’è il passaggio, per esempio (il suo esempio), dal “feudalesimo” al “capitalismo” in Europa, da intendersi su quattro secoli, dal XIV alla fine del XVIII, come mutamento insieme globale e continuo, sia economico, finanziario, sociale, che politico e ideologico, di conseguenza senza eroi e senza eventi, e anche senza luoghi precisi (avviene ad Anversa come a Genova), senza date o nomi da memorizzare, ma di cui Braudel ha fatto il suo grande cantiere? Che cos’è se non proprio una “trasformazione silenziosa”? A questo punto però bisogna esaminare il concetto di trasformazione silenziosa, più che in senso retrospettivo, in senso prospettivo; o, da concetto descrittivo qual è, non bisogna considerarlo nemmeno come prescrittivo, ma in quanto capace di sostituire l’impossibile metodo o la modellizzazione che ostacola.
Se c’è un “profitto” (li) da trarre dalle trasformazioni silenziose, questo sta nel fatto che sono più efficaci delle azioni eclatanti, di cui si parla e che fanno sensazione ma che, in quanto locali, momentanee e dipendenti dal progetto del soggetto, assomigliano sempre bene o male alla rappresentazione (teatrale) e al miracolo (il deus ex machina della Storia). Nello stesso tempo non è forse fatale che questo beneficio, essendo riconosciuto solo in un secondo tempo, tardivamente – sempre che lo si riconosca –, non sia considerato come merito nostro (i grandi uomini politici lo sanno)?
Si preferisce annunciare misure e gesti eclatanti piuttosto che innescare mutamenti discreti che potrebbero effettivamente invertire la tendenza
Portato dalla situazione che si è provocata, il beneficio sembra derivare “naturalmente” senza saper attirare l’attenzione e ancor meno la retribuzione. Il grande merito di chi ha saputo innescare queste trasformazioni, lasciandole procedere da sé, non si vede. Egli si confonde con la sua riuscita; è per questo che c’è effettivamente riuscita, una riuscita assimilata dalla situazione e non la forzatura che si fa notare immediatamente, ma che produce inevitabilmente resistenza e contro-effetto. Così si prescrivono degli “atti” psichiatrici (in ambito medico, s’intende) perché essi hanno un inizio e una fine definiti, sono decisi e giustificati da un agente responsabile, perché si possono sommare e contabilizzare, quindi retribuire.
Ma sono davvero i più efficaci? O che cos’è una “cura” in psicoanalisi, se non appunto una trasformazione silenziosa che si fa strada lenta, inudibile, fino a rendere di nuovo percorribile la vita psichica? Ma si può riconoscere una trasformazione silenziosa quando essa è diffusa, quando sfugge al potere e non è assegnabile? Si potrà mai rivendicarla? Come si capisce bene, la questione non è solo teorica. Del (vero) grande generale “non c’è niente da lodare”, come diceva il Sunzi, perché ha saputo far maturare silenziosamente la vittoria così bene che la si crede “facile” (e non si pensa dunque di lodarla); questo problema si ritrova identico in ogni gestione dei processi, dunque anche in politica.
Si preferisce annunciare misure e gesti eclatanti di cui vantarsi in anticipo, piuttosto che innescare mutamenti discreti che, facendosi strada in modo notturno, potrebbero effettivamente invertire la tendenza (per esempio, oggi, a proposito della disoccupazione e dei cambiamenti sociali da incentivare). Ma quando sapremo fare della “trasformazione silenziosa” un concetto strategico che illumina la “maturazione” e il suo potere di farsi strada? In Europa, la nostra concezione dell’efficacia è legata all’evenemenziale, attraverso la valorizzazione dell’atto, quindi allo spettacolare e all’eroico; ai nostri occhi l’efficacia assomiglia sempre, più o meno, all’epopea; e questo è ancora più vero nel regime mediatico che per la sua stessa funzione, legato com’è all’auditel, rende le cose sonore invece di rivolgersi a ciò che è discreto. Attraverso “piccole frasi” molto commentate o attraverso i sondaggi ripetuti senza posa, senza dare tempo al tempo, bisogna a tutti i costi creare l’“evento” (di cui si parla), e la vita democratica ne viene alterata.
E ancora: su quali trasformazioni silenziose, che costituiscono la realtà della nostra società, c’è stata l’occasione di pronunciarsi e di votare? Non sappiamo quasi mai contare su queste trasformazioni avviate in sordina, che si fanno strada in silenzio e danno in seguito i loro frutti, che si impegnano in modo discreto e hanno presa sul corso delle cose perché si lasciano portare da esso. Assorbite dalla situazione, le trasformazioni silenziose procedono senza strombazzare, senza lasciarsi localizzare, in modo “evasivo”, e non si possono identificare. Bisogna dunque imparare a dare uno statuto a questo evasivo, non identificabile e non localizzabile, perché è ciò che nel modo più radicale ci fa uscire dal pensiero dell’Essere e da quanto esso rileva prima di tutto: la volontà di stabilire un posto per ogni “cosa” e di assegnare.
[© Giangiacomo Feltrinelli Editore]
Illustrazione: collage di Enea Brigatti
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