Martedì 26 settembre 2023
Nuove narrazioni del lavoro
Scritto da:
cheFare
Fonte:
Il Tascabile

Come la presa di consapevolezza dello sfruttamento passa attraverso esperienze concrete.
L’utente @stove indossa una maglietta con scritto “If your activism is not intersectional, it is bullshit”, degli occhiali rettangolari e delle cuffie con microfono incorporato. Sorride nervoso verso la videocamera con cui si sta riprendendo, prima di annunciare le sue dimissioni in collegamento con quelli che immaginiamo essere i suoi datori di lavoro. È solo uno tra centinaia di video con milioni di visualizzazioni che scorrono sotto gli hashtag #Quittok o #Quitmyjob su TikTok. Vediamo persone in lacrime, oppure esultanti e fuori controllo, che mostrano le mani tremanti dopo aver inviato la fatidica email. È uno dei giorni più importanti della loro vita, dicono. Sono tutti molto giovani, al massimo trentenni. Da quando ne abbiamo sentito parlare per la prima volta, circa due anni fa, le Grandi Dimissioni non hanno impiegato molto a diventare un trend sui social network. D’altra parte, da quando i social hanno fatto irruzione nelle nostre vite, non si è mai parlato così tanto di lavoro come in questi ultimi anni.
Complice la pandemia, ma molto probabilmente contano anche mere questioni anagrafiche: le persone tra i 20 e i 35 anni sono alle prese con le prime esperienze lavorative o hanno già fatto in tempo a sperimentare alcune delusioni professionali e ne discutono su internet, come per qualsiasi altra cosa. Gen Z e millennial vengono spesso descritte come due generazioni sensibili a temi come flessibilità, etica e diritti sul lavoro più di quanto non avvenisse nel passato recente. Sui magazine e sui canali social si discute di settimana lavorativa corta, gender pay gap, congedo mestruale, climate quitting, di nomadismo digitale e romanticizzazione della “vita lenta” lontana dalle grandi metropoli. Sono discorsi che prendono un sacco di like, ma probabilmente il vero collante che unisce ventenni e trentenni oggi è il burnout, motivo per il quale si parla di Great Exhaustion.
L’utente @stove indossa una maglietta con scritto “If your activism is not intersectional, it is bullshit”, degli occhiali rettangolari e delle cuffie con microfono incorporato. Sorride nervoso verso la videocamera con cui si sta riprendendo, prima di annunciare le sue dimissioni in collegamento con quelli che immaginiamo essere i suoi datori di lavoro. È solo uno tra centinaia di video con milioni di visualizzazioni che scorrono sotto gli hashtag #Quittok o #Quitmyjob su TikTok. Vediamo persone in lacrime, oppure esultanti e fuori controllo, che mostrano le mani tremanti dopo aver inviato la fatidica email. È uno dei giorni più importanti della loro vita, dicono. Sono tutti molto giovani, al massimo trentenni. Da quando ne abbiamo sentito parlare per la prima volta, circa due anni fa, le Grandi Dimissioni non hanno impiegato molto a diventare un trend sui social network. D’altra parte, da quando i social hanno fatto irruzione nelle nostre vite, non si è mai parlato così tanto di lavoro come in questi ultimi anni.
Complice la pandemia, ma molto probabilmente contano anche mere questioni anagrafiche: le persone tra i 20 e i 35 anni sono alle prese con le prime esperienze lavorative o hanno già fatto in tempo a sperimentare alcune delusioni professionali e ne discutono su internet, come per qualsiasi altra cosa. Gen Z e millennial vengono spesso descritte come due generazioni sensibili a temi come flessibilità, etica e diritti sul lavoro più di quanto non avvenisse nel passato recente. Sui magazine e sui canali social si discute di settimana lavorativa corta, gender pay gap, congedo mestruale, climate quitting, di nomadismo digitale e romanticizzazione della “vita lenta” lontana dalle grandi metropoli. Sono discorsi che prendono un sacco di like, ma probabilmente il vero collante che unisce ventenni e trentenni oggi è il burnout, motivo per il quale si parla di Great Exhaustion.
Foto di Aarón Blanco Tejedor su Unsplash
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